Lissa Rankin è un medico. Ha scritto diversi libri, che sono poi diventati best sellers, e tiene da alcuni anni diversi seminari e conferenze in tutto il mondo, compresa l’Italia.
La sua storia è nota a molti ed è lei stessa a raccontarla. Lissa lavorava in ospedale ma, dopo essersi trovata ad affrontare una serie di traumi molto difficili, una decina di anni fa decise di mollare tutto.
Lissa narra spesso di come, davanti a tanto dolore, il suo unico istinto fosse quello di negarlo, di sopprimerlo e fare finta di niente. Una reazione in cui molti si riconosceranno. Così come sarà facile comprendere come, in queste situazioni, sia facile farsi tentare da quello che viene definito il bypass spirituale. Pellegrinaggi verso luoghi sacri, ritiri spirituali, meditazioni guidate, yoga, sciamanesimo, convegni, libri di self-help. Tutte esperienze assolutamente valide, non fosse che, in determinate circostanze, queste sono dei meri pretesti per aggirare il proprio dolore. Specialmente se non sono occasionali, ma diventano abitudini quotidiane.
In questa epoca in particolare, nella quale la spiritualità è così inflazionata, capita di usare questa strada per evitare di attraversare il proprio dolore, quello che sembra sgretolare il cuore. La spiritualità ha infatti un suo lato ombra, specialmente quando viene vissuta così: per sopprimere rabbia, delusione, gelosia, solitudine.
Esiste un libro sull’argomento, scritto dal Dr. Robert Masters, che sottolinea come, quando non siamo capaci di far fronte ai nostri fantasmi interiori, veniamo spinti a cercare nella spiritualità un rifugio, una soluzione facile e rapida ai nostri problemi.
Ci dimentichiamo però, così, di quanto il dolore sia naturale e di come si manifesti sempre con uno scopo elevato: quello di richiamare la nostra attenzione su una parte di noi che necessita di essere guarita. E’ proprio quando usiamo la spiritualità per evadere che, invece di crescere ed evolvere come anime, facciamo un percorso inverso, che ci allontana dal nostro nucleo.
Ci sono momenti, nella vita, in cui la solitudine è indispensabile. E’ utile persino il vuoto che si crea, sia dentro che fuori. Perché quel vuoto sarà gradualmente riempito con nuovi elementi, mentre compiremo il nostro processo di guarigione. Non serve a molto frequentare cerimonie con l’ayahuasca, impegnarsi in un ritiro spirituale, o spendere ore a meditare, se non prendiamo consapevolezza di cosa ci sta capitando e del perché. Solo conoscendo il nostro dolore avremo gli strumenti per compiere la trasformazione a cui la nostra anima anela.
I traumi che viviamo vanno sviscerati fino in fondo. Vanno vissuti. Vanno capiti. Solo così potremo liberarcene.
In acuto, cercare qualcosa che possa lenire il nostro dolore è sicuramente utile. Il dolore non si può evitare per sempre, però. Si può ritardare solo fino a quando non siamo abbastanza forti da affrontarlo di petto e poi andare avanti.
Quello che ci serve, in questi momenti, è avere accanto qualcuno che ci faccia da consigliere e da guida, che ci sostenga mentre ci avventuriamo nel buio che abbiamo dentro. Solo così potremo veramente guarire.
Non c’è purtroppo via d’uscita. Talvolta serve cadere nel baratro per potersi rialzare in piedi, una volta curate le ferite, più forti di prima. Continuare a rimbalzare sulle ginocchia non porterà lontano, se non verso una condizione in cui noi per primi ci indeboliremo e ci prenderemo gioco di noi stessi, senza assumerci la responsabilità della nostra felicità. Quella vera. Quella pura che scaturisce dal cuore. Non certo quella artificiale delle menzogne che raccontiamo a noi stessi, facendo finta di niente.
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Articolo di Monica Vadi per generazionebio.com
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