Recentemente è uscita nelle sale una commedia di Francesco Amato dal titolo apparentemente poco rilevante, un titolo che ricalca un’espressione al quanto ricorrente nel regime di stress indotto e autoprodotto in cui viviamo: “Lasciati andare”
Lasciati andare.
È una parola!
Un invito che sa di sfida titanica, un mantra inflazionato quanto ostico da mettere in pratica – ma anche da comprendere.
Mi è capitato di andare a vedere questa commedia al cinema lo stesso giorno in cui ho ripreso a leggere Energia Quantica di Melissa Joy, curiosamente proprio da un punto in cui l’autrice utilizza la stessa espressione:
Quando smettiamo di opporci, ciò che si protrae da tempo inizia a mollare la presa su di noi. Ciò a cui ci aggrappiamo si aggrappa a noi. Quando lasciamo andare la resistenza, ristabiliamo la consapevolezza del puro potenziale di ognuno di noi, prima che venga separato come esperienza. Lasciati andare
Precisamente cosa dovremmo lasciar andare?
L’espressione vale la pena prenderla proprio alla lettera: noi stessi.
Dobbiamo lasciar andare noi stessi.
Attenzione: non “mettere da parte” o “dimenticare” o “tradire”, ma “lasciar andare”, ovvero… LIBERARE.
Perché lo stress non è che l’effetto di un tenere noi stessi in pugno, in gabbia, in sofferenza.
L’effetto di un pensiero centrato sull’esigenza di soddisfare regole formali, generali, che non tengono in conto la personalità di nessuno, che anzi sono tese a neutralizzare la differenza che ogni ricca e sana personalità apporterebbe a se stessa e a chiunque interagisse con la sua area di influenza.
Questo modo di pensare agisce sempre e solo come sistema di controllo preventivo, e la conseguenza più triste è che spesso lo installiamo nelle nostre menti (letteralmente lo scarichiamo, facciamo il download, per emulazione, e lo carichiamo in noi stessi) senza badare alla tutela di quell’unico aspetto che ci permette di andare avanti: quel noi stessi che non è mai un terminale uguale a tutti gli altri.
Solo se noi per ultimi ci trattiamo così – come terminali uguali a tutti gli altri – possiamo diventarlo.
Anche se non lo siamo.
Possiamo diventarlo perché, senza accorgercene per tempo, saremo interamente passati dalla parte del controllore.
Il controllo ha mille ragioni con cui rendersi necessario: pensate a tutti i ruoli che nei secoli sono stati istituiti e riciclati in nome dell’esigenza di prevedere e di guidare sviluppi, rivendicazioni e desideri che avrebbero potuto portare la vita a diventare una scheggia impazzita, una minaccia.
Pensate a tutte le restrizioni che via via vengono legalizzate in nome di questo bisogno che più nessuno si sogna di mettere in discussione.
Il bisogno di tutelare una sopravvivenza minima fatta passare per l’unica forma di vita cui potremmo avere diritto.
Guai a volere più di questo.
Ma a questo nessuno ci pensa, perché i controllati vivono da controllori.
È questa la fregatura, è questa la nostra colpa: aver smesso di pensare dal centro del nostro respiro respinto, accorciato.
Spostiamoci, invece, dai margini al centro.
Il centro dov’è?
Dappertutto.
Allora siate dappertutto!
Lasciatevi andare, lasciate andare voi stessi allo sbocco verso il mare: non vi perderete, non annegherete.
Rendetevi inafferrabili, non fatevi trovare. Non aspettate il prossimo giro di vite.
Quando capite le regole del gioco non cadete nella tentazione di dimostrare che siete più bravi: rimarreste dentro, e bramereste senza accorgervene l’avversario di turno, e quando non ce ne saranno più, quando li avrete vinti tutti, bracchereste voi stessi, perché avrete dimenticato chi siete, dove siete e perché la vostra vita dovrebbe mai valere qualcosa di più di questo.
Il controllo non è solo fuori, è dentro, nella nostra testa.
È l’arresto della fluida espressione di ogni cambiamento.
E arresto non significa solo trionfo della legge: significa anche fine. Game over.
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Articolo di Margherita Cardetta per generazionebio.com
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