Consideriamo questo cameriere. Ha il gesto vivace e pronunciato, un po’ troppo preciso, un po’ troppo rapido (…), si china con troppa premura, la voce, gli occhi esprimono un interesse un po’ troppo pieno di sollecitudine per il comando del cliente (…). Non occorre osservare molto per rendersene conto; gioca ad essere cameriere (…) gioca con la sua condizione per realizzarla. Quest’obbligo non differisce da quello che si impone a tutti i commercianti; la loro condizione è tutta di cerimonia, il pubblico reclama da essi che la realizzino come una cerimonia, c’è la danza del droghiere, del sarto, dello stimatore, con cui si sforzano di persuadere la loro clientela che non sono altro che un droghiere, uno stimatore, un sarto. Tante precauzioni per imprigionare l’uomo in ciò che è. Come se vivessimo nel timore perpetuo che ne sfugga, ne trabocchi, eluda improvvisamente la sua condizione(*)
Abbiamo a che fare con la filosofia più spesso e più facilmente di quanto potremmo immaginare.
Lo dimostra questo brano tratto da:”L’essere e il nulla” di Jean-Paul Sartre. Uno di quei testi (chiamiamoli anche mattoni) che viene l’emicrania solo a soppesarli da lontano, figuriamoci a prenderne in esame il titolo:”l’essere e il nulla”. Mah.
Eppure… è davvero così astruso quel brano che abbiamo letto?
Diciamo che indirizza la nostra attenzione su un qualcosa che a tutti capiterebbe di notare, a patto di farci caso.
Ecco, allora, cosa può darci questa inutile, superata e astratta filosofia: la POSSIBILITÀ di accorgerci delle cose che sono sotto gli occhi di tutti con uno sguardo che da silente si fa interrogativo.
Basta un niente – e ci siamo già dentro fino al collo.
È a questo punto che i filosofi che si studiano al liceo e all’università possono cominciare ad avere un senso.
È solo a questo punto che, se vogliamo, possiamo iniziare a parlare di storia della filosofia.
Ma la filosofia non è semplicemente una materia di studio: è una piega che facciamo prendere alla nostra mente, come a volerla far passare da un vicolo, da una strettoia che ci obblighi a concentrarci su un problema, una domanda, un dettaglio – fino a quando non troviamo una o più risposte possibili.
Non che, dopo, si possa ottenere “la verità”: dopo – si ottiene al più la certezza che la propria mente ha la tendenza ad addormentarsi, ad acquietarsi, ad appiattirsi più facilmente di quanto avremmo mai sospettato – prima.
Non è poco.
L’importanza della filosofia sta tutta in questa certezza che ci rimane dopo aver fatto prendere alla nostra mente una piega diversa: la certezza che la mente sia un commutatore di possibilità, di direzioni molteplici.
Che la nostra mente non sia affatto un innocuo e statico vetro dietro il quale osserviamo tutto è risaputo.
Ma allora perché tanto spesso ci comportiamo, giudichiamo e pensiamo come se davvero tra noi e il mondo non ci fosse niente? Come se tutto fosse davvero come sembra?
La filosofia, storicamente, è partita forte proprio da questo punto: ha a lungo indagato la natura delle cose che abbiamo davanti agli occhi, che pensiamo di guardare da dietro un vetro.
Un compito che a prima vista appare sospeso in aria, non è vero?
Ma restiamo ancora un po’ concentrati. Cosa significa: “indagare la natura delle cose”?
Significa chiedersi (semplicemente chiedersi) cosa le rende quello che sono. Ovvero ciò che le accomuna al di là di grandezze, colori, forme diversi… Ciò che le accomuna nonostante le differenze.
Ma…”ciò che le accomuna” RISPETTO A CHI?
Rispetto a me.
Rispetto a te.
Rispetto a chi abbia una mente in grado di porsi delle domande e non solo di prendere le cose così, come vengono.
La natura delle cose, verrebbe da dire, è proprio questa: la natura della mente con cui le guardiamo: non semplicemente “attraverso cui” o “per mezzo di cui” le guardiamo: CON cui le guardiamo.
La mente è il punto in cui incontriamo il mondo. Il punto in cui si realizza la continuità tra noi che vediamo e ciò che si lascia vedere da noi.
Non possiamo dire con certezza dove finiamo noi e dove inizia il mondo, se il mondo che vediamo è evidentemente condizionato dalla nostra stessa natura, da ciò che fa di noi ciò che siamo: una mente e la volontà di usarla e di non usarla in questo o in quest’altro modo.
Quindi la mente è quella natura delle cose con cui ci confrontiamo incessantemente, anche se non sappiamo di farlo.
È proprio questo che ci sta dicendo Sartre.
Continuiamo a leggere:
Gli è però che, dal di dentro, il cameriere non può essere immediatamente cameriere, nel senso in cui questo calamaio è calamaio, o il bicchiere è bicchiere(*)
Perché il cameriere non può essere paragonato a un calamaio o a un bicchiere? Che domanda! Il cameriere è un essere umano, mica un oggetto.
Ma ponendoci in maniera critica rispetto a una simile provocazione siamo portati a imboccare contromano un labirinto di ulteriori domande che diversamente non ci sarebbe ragione e modo di porre a se stessi.
Domande inutili? Forse.
Ma queste domande tracciano la geografia di un territorio completamente invisibile che ci determina in ogni istante, che ci condiziona senza che ce ne accorgiamo, un territorio che altrimenti ci sarebbe inaccessibile.
Domandando non farnetichiamo nel vuoto, ma facciamo esperienza della nostra mente, di quel vetro che ci è talmente vicino da non poter essere mai facilmente messo a fuoco: è solo la nostra volontà a poterlo mettere a fuoco – e si tratta di un’esperienza assolutamente concreta.
Mentre seguiamo il ragionamento di Sartre (ma potrebbe trattarsi di qualunque altro filosofo, addirittura di uno che poi disapproveremo in pieno o che non riusciremo proprio a comprendere) noi non arriviamo da nessuna parte, di preciso, ma ci diamo la possibilità di scoprire indirettamente la complessità della mente, quanta elaborazione e quanti punti ciechi ci siano in quel vetro che siamo abituati a non considerare.
Se vediamo un albero, vediamo l’albero… non vediamo di certo la nostra mente che ci sta permettendo di percepire, di mettere insieme, di riconoscere quel qualcosa che chiamiamo “albero”.
Cosa cambia, in fondo?
Cosa cambia tra il vedere un albero e l’essere consapevoli che è la nostra mente a consentirci di vederlo? Una pura differenza di forma, una pura differenza di termini? No.
La filosofia innesca e fissa un’attitudine. L’attitudine a tenere presente, il più spesso e a lungo possibile, il nostro ruolo in tutto ciò che possiamo vedere, ascoltare, assaporare, valutare.
La filosofia è qui a dirci che non possiamo toglierci di mezzo, anche se lo facciamo ogni volta che prendiamo il mondo alla lettera e giudichiamo la visione che ne abbiamo come ovvia e indiscutibile.
La filosofia complica le cose?
E allora andiamo a vedere cosa comporta la semplicità tanto in voga di questi tempi. L’immediatezza, l’accessibilità automatica a contenuti che non abbiamo tempo-voglia-modo-coscienza di mettere a fuoco.
Questa è la semplicità?
La semplicità deve essere un punto di arrivo, non una presunzione da cui partire.
È proprio a questo che servono le domande apparentemente stupide o superflue che ritroviamo cosparse nei manuali di filosofia, come “qual è la natura delle cose?”…servono a esplorare la complessità di ciò che viene preso per ovvio e semplice e, venendo preso per ovvio e semplice, ci rende – o meglio ci lascia – ciechi.
Una mente che sa di avere a che fare prima di tutto con se stessa non aggredisce a cuor leggero, non insulta, non tratta il mondo e gli altri come territori da sfruttare; e sa bene di non essere un oggetto perché sa cosa non può mai fare di sé un oggetto: esattamente la propria natura, la possibilità che ha di estendersi, di restringersi, di fissarsi, di rivolgersi al passato, di prendere in considerazione, di ignorare, di giocare, di immaginare.
Chi può giocare con se stesso, chi può giocare se stesso, chi può recitare, chi può fingere, chi può autoconvincersi? Un calamaio, forse? un bicchiere?
No, solo un uomo in grado di pensare (anche se non farà mai del proprio pensare un problema meritevole di approfondimento).
Ecco perché per Sartre è così straordinario e inquietante l’essere umano: perché a differenza di qualunque oggetto, non può coincidere semplicemente con se stesso, non può esaurirsi in se stesso, può solo occasionalmente (o anche per tutta la vita) recitare un ruolo, giocare a essere qualcuno da cui ci si aspettino atti ben precisi. Ma anche in questi casi sarebbe separato dai contorni che vediamo a contenimento della sua figura: nulla vieterebbe al cameriere che sto guardando nell’esercizio delle proprie mansioni di mettersi a ballare, a sparare, a urlare.
Un niente lo separa dagli infiniti altri ruoli che un niente gli impedisce di recitare.
Il suo essere è un’incessante danza sul bordo invisibile che lo separa dal nulla.
Il suo essere – l’essere di cui facciamo tutti esperienza – è sempre un peculiare intreccio di essere-e-nulla.
La mente è questo: un nulla – che dà essere a tutto.
Non in senso filosofico.
In senso letterale.
Solo in forza di questo varrebbe la pena non snobbare e non temere la filosofia.
(*) J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 2007, p.95
ISCRIVITI AL NOSTRO CANALE UFFICIALE SU TELEGRAM PER RICEVERE E LEGGERE RAPIDAMENTE TUTTI I NUOVI ARTICOLI
Articolo di Margherita Cardetta per generazionebio.com
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Foto di Freepik
Copyright – Se non diversamente specificato, tutti i contenuti di questo sito sono © GenerazioneBio.com/Tutti i diritti riservati – I dettagli per l’utilizzo di materiali di questo sito si possono trovare nelle Note Legali.