Stiamo vivendo l’estate più sanguinosa di sempre.
Alzi la mano chi non l’ha pensato almeno una volta venendo a sapere degli eventi tragici accaduti in rapida successione a Dacca, sulla tratta Corato-Andria, a Nizza, a Monaco…
Non c’è neanche il tempo di metabolizzare un colpo che ne è già arrivato un altro. La testa schizza da una notizia all’altra e a un certo punto si ferma, dismette le proprie capacità di analisi, di comprensione, di elaborazione autonoma. E rivolge a se stessa (ovvero al vicino, al figlio, al marito, alla sorella, agli amici, soprattutto virtuali e fittizi) una di quelle domande apparentemente ovvie quanto tediose: ma cosa sta succedendo al mondo?
La politica, gli interessi, l’insensibilità, le persone spietate, le persone impazzite.
Tutto come se, non essendo stati materialmente noi a dare il “la” agli eventi, fossimo indifferentemente vittime in attesa del prossimo giro di vite.
Se anche fosse, a cosa potrebbero portarci tutti questi dibattiti sulla responsabilità di mandanti, conniventi e autori, queste considerazioni banali sul mondo che ci si ritorce contro per abusi perpetratigli per decenni, secoli e millenni da nostri simili – gli stessi dai quali, sotto sotto, teniamo a prendere, a segnare le distanze?
Dal tam-tam di notizie alla chiacchiera fine a se stessa il passo è minimo, per non dire nullo.
E noi dove siamo? Che facciamo?
È in queste situazioni che salta all’occhio la forza del pregiudizio della separazione, quella radicata convinzione che non siamo parte del mondo in cui viviamo, che rispondiamo solo di ciò che facciamo e che in tutto quello che accade agli altri, per mano di altri ancora, le nostre intime reazioni, le nostre idiosincrasie private, i nostri orientamenti, in una parola: il mondo che ci portiamo dentro, non c’entrino assolutamente nulla.
È qui che viene fuori la contrapposizione più pervicace e criminale di tutte, quella tra un mondo “qui dentro” e il mondo “là fuori”, e la ragione per cui è così dura da debellare.
Infatti, di che parleremmo altrimenti?
Di cosa potremmo più parlare e sparlare se realizzassimo che tutto ci appartiene, anche la trascuratezza, l’indifferenza e l’interesse tendenziosi, il sentirci rabbiosamente inferiori, esattamente tutto quanto ricaviamo dalle deduzioni che tanto ci urtano quando parliamo sulla pelle degli altri?
Dopo che abbiamo sentenziato che quel tipo è ‘senza cuore’, quell’altro ‘senza morale’, quelli ‘esauriti’, quegli altri ‘ladri’… che più ci diciamo?
Dopo che abbiamo detto la nostra sulle soluzioni che applicheremmo se avessimo il potere di farlo, che cosa facciamo?
“Nella sua teoria generale della relatività Einstein sbalordì il mondo dicendo che spazio e tempo non sono entità separate, ma sono armoniosamente congiunti e parte di un insieme più vasto chiamato la continuità spazio-tempo. Bohm spinge innanzi questa idea, facendole compiere un passo da gigante. Egli dice che TUTTO NELL’UNIVERSO È PARTE DI UNA CONTINUITÀ. Nonostante l’apparente separatezza delle cose al livello esplicito, TUTTO È UN’ESTENSIONE INDIVISA DI OGNI ALTRA COSA, E ALLA FINE ANCHE GLI ORDINI IMPLICITO ED ESPLICITO SI FONDONO L’UNO NELL’ALTRO”*
Ma noi a cosa pensiamo quando parliamo del “mondo”?
A un continuo racconto televisivo, a un prodotto confezionato e divulgato dai canali ufficiali lungo i quali scorre l’informazione cui istintivamente elargiamo il nostro acritico assenso. Quello – ancora per la sconcertante maggioranza di noi – è il mondo.
E non ne siamo propriamente vittime, ma semplici, comuni, anonimi spettatori.
Chi non ha nome, chi non ha identità non può essere accusato.
Lo sapeva bene Ulisse quando, prevedendone l’ira nel momento in cui lo avrebbe accecato, disse a Polifemo di chiamarsi ‘Nessuno’. Perché poi, quando gli altri ciclopi gli avrebbero chiesto: chi è stato?, Polifemo avrebbe potuto rispondere soltanto: nessuno.
È da questa percezione di noi stessi che scaturisce la chiacchiera fine a se stessa, la condivisione innocua e morbosa del nulla… come se ciò di cui parliamo fosse solo una puntata del nostro serial preferito.
E come è sostanzialmente ininfluente la chiacchiera sui personaggi creati ad arte dalla nostra televisione, con tutti i suoi più innovativi e sofisticati derivati, così ci aspettiamo che sia sempre qualunque nostra presa di posizione: ininfluente (al di qua del mondo ‘che conta’, quello in cui accade la vita), dunque priva di qualunque responsabilità.
Come la chiacchiera sulla vicina divorziata che rincasa a tarda notte, come la chiacchiera sull’ex genero troppo espansivo o sul figlio asociale dei dirimpettai.
Ci diamo il diritto di consegnarci a questo fluire di chiacchiere perché in fondo crediamo di parlare di personaggi radicati in un mondo diverso dal nostro. Parliamo spesso di ‘mondi’ e non di ‘mondo’, non a caso.
‘In fondo apparteniamo a mondi diversi, era naturale che ci lasciassimo’, il mondo dei figli di papà, il mondo degli annoiati, il mondo dello spettacolo, il mondo dei politici.
Non ci rendiamo conto di applicare la logica dello spettatore televisivo anche alle persone con cui di fatto condividiamo strettamente il nostro quotidiano.
Siamo disposti a condividere con loro le nostre opinioni, la casa, il letto, ma mai il mondo, quello fuori e quello dentro di noi.
Il mondo è impegnativo.
Il mondo non si può fermare, registrare, rivedere e far ripartire.
Il mondo non ci aspetta.
Il mondo è in ogni piccolo uomo o piccola donna che incontri, e ad annunciarli non c’è nessuna locandina pubblicitaria, nessuna insegna al neon; il mondo è capire che in ogni sua parte non rivela mai altro che interamente te stesso.
Lo fa indirettamente, chiaro: ci devi arrivare.
Ma non ci puoi arrivare chiacchierando del più e del meno, buttando fuori la prima cosa che ti passa per la mente.
Quello non sei tu.
Eppure sarà quella cosa che avrai detto – senza pensare – a decidere per te.
La prima cosa che ti passa per la mente deciderà il mondo al posto tuo.
Lo farà in forza e per conto di tutto quello che nel tempo hai assorbito fermandoti alla prima impressione e prendendola per buona, e facendotela bastare.
E tu?
Sarai scavalcato.
Come quando decidono di far morire il tuo personaggio preferito senza chiedere il tuo parere.
Ma in fondo sentiresti che anche qui te lo aspettavi.
Ce lo aspettiamo sempre che le nostre opinioni non contino, che le nostre esigenze vengano liquidate a cuor leggero, che il nostro potere sia esiguo. Perché ce lo aspettiamo?
È la televisione che ci ha insegnato ad aspettarcelo, la massificazione dell’informazione che pretende di essere ‘di punta’ e che ci ha educati a dedurre che non valiamo niente.
E noi automaticamente scaraventiamo ciò che pensiamo di noi stessi sul mondo, prendendolo a calci, colpendolo pezzo a pezzo.
Se le mie opinioni non contano per Te, allora Tu non conti per me.
E ci aggrappiamo alla separazione tra noi e ciò che recludiamo in uno schermo virtuale, ci aggrappiamo a essa come al minore dei mali.
Continuiamo a sottovalutare quella sofferenza endemica di sentirci emotivamente ignorati, quella sofferenza che ai nostri occhi giustifica ogni giudizio, ogni livore, fino alla sua espressione più fragorosa.
Quella sofferenza che accomuna violenze di matrici diverse.
Il mondo ne è intimamente saturo.
Come il nostro cuore.
E allora?
Bisogna imparare a contare, a valere, a pesare.
Bisogna imparare a pensare.
Bisogna capire, finalmente, che non ci sono mai stati margini a proteggerci e che, al limite, siamo stati protetti solo dal nostro potenziale più elevato.
Siamo integralmente esposti al mondo e il mondo risuona principalmente dei nostri segreti più scomodi. L’irresponsabilità seduce, ma disattiva il nostro entusiasmo, ci confina nel limbo di chi non dà fastidio e di chi non lascia tracce.
Come se fossimo venuti al mondo solo per non essere puniti, solo per non destare sospetti.
È così che impariamo a farla pagare cara, con la nostra chiacchiera inutile eppure, nostro malgrado, potente.
La facciamo pagare cara a tutti quelli che, invece, lasciano il segno, anche sbagliando.
Sotto sotto sono finiti in tv: sono degli eroi. Sotto sotto ne parlano tutti: in fondo li invidiamo.
Non lo ammetteremmo mai il sogno impossibile di finire sotto gli occhi di tutti, protagonisti di un caso eccezionale. Come se, invece, al di qua di ogni clamore in onda sullo schermo, la nostra esistenza quotidiana non fosse interessante, come se… non fosse reale. Non immaginiamo quanto concretamente proprio questa nostra sorda convinzione sia responsabile di ciò che scorre sui nostri schermi, in un invadente LÌ che ci schiaccia sulla poltrona, QUI.
Facile parlare di anima: se non la incarniamo nei nostri atti minimi concreti, semplici, anonimi, non ce ne facciamo niente.
Se continueremo a stabilire luoghi, giorni e momenti per ricordarcene, finiremo sempre col considerare tutto il resto del tempo e dello spazio come di dominio sconsacrato.
O tutto è sacro sempre, o nulla è sacro mai.
Costruire templi, chiese, istituire sacramenti, cerimonie, occasioni per promuovere il contatto con la nostra dimensione spirituale…. tutto questo non ha fatto che rafforzare in noi l’idea della separazione dal mondo, a cominciare dal mondo sotto il nostro naso.
Se io ho bisogno di andare in chiesa per attivare il mio contatto con Dio, significa che vivo senza Dio.
Significa che sono circondato da infiniti momenti e spazi in cui rinuncio a cercarlo e in cui mi autorizzo a fare a meno di Lui.
Significa che vivo la maggior parte del mio tempo nella separazione.
Separato dal mondo, da Dio, da chiunque mi sia vicino e da me stesso.
L’anima sta lì a dirci che la separazione è l’unico autentico PECCATO, e che al di là di essa c’è la responsabilità più grande che apre alla felicità più grande: chi non si sente responsabile del mondo non potrà mai essere felice.
Perché la felicità vera è l’esperienza diretta di un mondo comune senza barriere.
La felicità la riconosci quando la augureresti a tutti. Con la sicurezza che, al pari del dolore più profondo, è in grado di polverizzare ogni parametro di ordinaria sopportazione.
(*) Michael Talbot, Tutto è uno. L’ipotesi della scienza olografica, Feltrinelli, p.55
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Articolo di Margherita Cardetta per generazionebio.com
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