Essere uomini significa venire al mondo e stare al mondo.
Stare al mondo non è un optional, uno di quegli ingredienti della ricetta di cui si possa fare a meno aspettandosi che il risultato resti sostanzialmente invariato. L’anima è la percezione di questo legame implicito, il riconoscimento di un ordine invisibile che ci colloca al centro di tutto ciò di cui nel tempo diveniamo coscienti.
In questo senso, l’uomo è sempre al centro del mondo, anche se questa visione è stata superata dalla rivoluzione scientifica che ha dato inizio alla storia moderna, così come ce l’hanno raccontata.
Per questo dell’anima, come del mondo, possiamo anche fare tranquillamente a meno, limitandoci a vivere di legami causali espliciti, circoscritti, rigorosi.
Ci illudiamo così di poterci creare un mondo a misura del nostro controllo, delle nostre regole, delle nostre esigenze, un cosmo finito.
Per gli antichi greci, ‘finito’ era sinonimo di ‘perfetto’.
Vivere di e in ciò che è perfetto: esiste forse un’immagine esplicativa più edificante dell’equilibrio, dell’armonia?
Se non che… la perfezione è la seduzione della forma, di un contenitore che superi in importanza ciò che contiene, e trattiene, e governa.
Può accontentarsi della forma solo chi non crede nei contenuti.
La forma dovrebbe avere valore solo in funzione dei contenuti: dovrebbe avere la funzione di veicolarli per facilitarne la comprensione, non di metterli in secondo piano.
Altrimenti un giorno finirà col contenere qualunque cosa senza alcun riguardo al suo effettivo significato, valore, merito, intento.
È già successo infinite volte.
Pensate ai partiti politici che conservano strategicamente lo stesso nome cambiando la composizione interna dei loro interpreti.
Pensate ai compromessi, di qualunque tipo.
L’anima, il mondo… una forma non ce l’hanno, non possono averla.
Il loro modularsi attraverso confini sempre labili e opinabili è vissuto dalla nostra razionalità, di matrice greco-classica, come una minaccia.
La minaccia dell’infinito che si fa avanti con lo straniero, con l’immigrato, con l’adultera, con il figlio illegittimo, ribelle, omosessuale, disabile, con le mille figure dell’emarginazione che la nostra cultura ha stigmatizzato.
Il mercenario, la strega, l’artista di strada…figure colpevoli di avvicinarci all’infinito, figure che non possono essere integrate così come sono: pena il venir meno della forma che abbiamo fin qui concordato a garanzia dei nostri più vivi interessi.
È così che orgogliosamente si sono stabiliti i confini nazionali: non per amor di patria, ma per difendersi dalla paura di scomparire finendo in un mondo incalcolabilmente più grande.
Più grande è l’universo che scopriamo di avere intorno, più piccoli ci sentiamo.
Il rifiuto di sentirci piccoli ci fa creare muri che di per sé non esistono.
Quando si dice che l’umiltà è la base e la rivelazione della grandezza ci si riferisce proprio a questo: solo accettando la nostra piccolezza di fronte al mondo iniziamo ad aprirci ad esso, a comunicare con esso, a diventare tutt’uno con esso, e dunque ad attingere alla sua energia infinita.
Solo allora scopriamo di essere sempre stati patrioti apolidi, figure di confine, stranieri su una terra che non appartiene veramente a nessuno.
Ha presente davvero il mondo chi si sente fragile ovunque, in ogni situazione, e non vive questo sradicamento come un’ingiustizia, ma come un’impegnativa opportunità.
E l’anima è l’avvertimento del mondo in ogni nostro singolo passo, in ogni incontro, in ogni dialogo.
Chi si fa carico del mondo e ci mette l’anima è pronto a riconoscerlo nell’altro, e non rischierà mai di annoiarsi, di limitare e di essere limitato, di restare deluso.
Togli invece il nemico di turno a ogni nazione gelosa dei propri confini, e troverai in men che non si dica al suo interno non connazionali, ma estranei abulici pronti a farsi fuori a vicenda.
Non si possono mettere confini intorno a sé senza metterli dentro di sé: di questo ci avverte l’ipotesi olografica della scienza, l’ipotesi non dimostrata eppure così incredibilmente sensata che in ogni parte di noi si celi implicitamente il mondo che vediamo intorno, e che il mondo sia il nostro ordine implicito dispiegato.
Che è come dire: tutto ci riguarda e noi riguardiamo tutto.
Piccoli, siamo, e decisivi.
Stando così le cose, siamo chi osserva e chi è osservato, che è come dire: l’uomo è il mondo.
Forse, la cosa più stupefacente fra tutte è che esistono prove schiaccianti del fatto che l’unico momento in cui i ‘quanta’ si manifestano come particelle è quando li guardiamo. Scoperte fatte per mezzo di esperimenti suggeriscono che, quando non lo si sta guardando, un elettrone sia sempre un’onda*
Questo significa che – a fronte di tutta l’insicurezza a cui ci diamo in consegna divenendo consapevoli di essere parti integranti di un mondo infinito – siamo l’ingrediente segreto di qualunque persona incontriamo.
La sua risorsa nascosta come il suo pericolo più grande.
In un mondo siffatto nessuno può aspirare a sentirsi protetto.
Non che solo adesso sia così: lo è sempre stato. Lo sarà sempre.
Essere al mondo comporta questa insicurezza, stare al mondo implica questo peso ineludibile a minaccia di ogni gioia.
Ma quanto vale riconoscere questa insicurezza piuttosto che illudersi di poterla controllare!
Quanto vale confrontarsi da esseri umani, senza illudersi che ruoli e rapporti di potere, di convenienza, esauriscano il potenziale della nostra presenza gli uni di fronte agli altri!
Quanto vale metterci il mondo e l’anima nei nostri pezzetti di strada in comune!
Si perde la sicurezza, si guadagna la libertà.
La libertà di farsi conquistare senza cedere i polsi, la libertà di lasciare un segno indelebile che non sia un vincolo, ma un dono di cui arricchirsi.
La libertà di sperimentare nuovi modelli di convivenza improntati al rispetto del valore manifesto e implicito di ognuno di noi.
Aprirsi al mondo, metterci l’anima, significa scoprire insieme all’insicurezza che non puoi arginare le potenzialità che abbiamo sempre sottovalutato, in noi stessi e negli altri.
Ecco perché vale la pena non soccombere alla paura, non permetterle che decida al posto nostro.
Ecco perché non dovremmo più farci complici della diffusione e del radicamento di ciò che ci spaventa.
Essere protetti, sentirsi protetti, è un’esperienza bellissima, fantastica.
Ma guai a confonderla con l’amore e con il fine ultimo dei rapporti.
Ci basti sapere che chi amiamo, a cominciare dai nostri genitori, fa del suo meglio per proteggerci, ma dobbiamo considerare che non sarà mai in grado di farlo letteralmente – e per fortuna.
Lo stesso vale per i nostri figli: diamo loro il mondo, non il terrore di viverci dentro.
Perché cresciamo e amiamo veramente solo quando – e nella misura in cui – siamo disposti a sopportare l’insicurezza che l’allontanarci da ogni confine comporta e siamo in grado di accogliere il sensibile cambiamento che apporteremo nella nostra vita, e di condividerlo con gli altri.
(*) Michael Talbot, Tutto è uno. L’ipotesi della scienza olografica, Feltrinelli, p.41
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Articolo di Margherita Cardetta per generazionebio.com
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