Avrete sentito parlare di uno dei bestseller del momento: “Il magico potere del riordino” di Marie Kondo.
Il sottotitolo recita: “il metodo giapponese che trasforma i vostri spazi e la vostra vita”.
Questa pubblicazione ha quanto meno il merito di mettere in evidenza la pressione sottile che i nostri oggetti – quelli che normalmente usiamo o che conserviamo senza ricordare, o senza aver mai saputo perché – esercitano sul modo in cui percepiamo noi stessi.
Fa capire molto bene come gli oggetti di cui ci circondiamo – di cui a volte ci armiamo, a presidio del nostro bisogno di avere da parte scorte di emergenza per ogni remoto imprevisto – non sono semplicemente degli oggetti.
La borsa che portiamo con noi ogni volta che usciamo, ciò che mettiamo in essa e ciò che evitiamo di togliere da essa (al costo di sobbarcarci pesi eccessivi), gli armadi e gli scaffali, i ripiani su cui finiamo con l’accumulare di tutto per comodità, per poterci occupare al momento di altro, o semplicemente per potercene non occupare… non sono accessori, non sono innocenti parti a se stanti che non intaccano l’interezza isolata della nostra persona.
Visivamente è così: nessuno di noi se ne va in giro come le tartarughe con la propria casa sul groppone.
Eppure qualcosa in noi si fa carico impercettibilmente di tutte le cose che abbiamo collegato alla nostra esistenza senza minimamente sospettare che basta un semplice pensiero per stendere un filo invisibile a doppio senso di circolazione tra noi e le cose – come tra noi e le persone.
Marie Kondo ci dice in sintesi proprio questo: gli oggetti hanno un’anima.
Che non è come dire: sono magici.
Il suo non è ingenuo animismo.
È piuttosto come dire: attenzione, la vostra identità non è fatta solo delle vostre braccia, delle vostre gambe, dei vostri capelli e del colore dei vostri occhi. Non è fatta neanche solo dai vostri vestiti e dai vostri comportamenti.
Ma è fatta anche di tutte quelle cose su cui poggiate un’intenzione o di cui vi appropriate senza che vi siano veramente utili.
Senza immaginarlo, deambuliamo tra di noi oberati da cumuli di materiale clandestino.
Senza immaginarlo, quando tra noi dialoghiamo, a dialogare per noi sono tutte quelle propaggini di cui non ci prendiamo cura: che tipo di comunicazione ne viene fuori?
Ma soprattutto: che tipo di comunicazione verrebbe fuori se ognuno di noi fosse presente solo con le parti attive ed essenziali della propria identità?
È per invitare a sperimentare questa differenza che l’autrice ha scritto un libro che racchiude la sua esperienza di consulente domestica.
E credo che questo libro possa essere per molte persone propedeutico alla comprensione del carattere olografico della nostra esistenza (‘siamo in tutto e tutto è in noi’).
Spesso siamo portati ad accumulare esperienze e conoscenze come se fossero oggetti, immaginando di potercene disfare quando vogliamo, o che un giorno potrebbero tornarci utili. Spesso trattiamo le persone come fossero anche loro degli oggetti, senza sapere che neanche degli oggetti potremo disfarci così facilmente come pensiamo.
Ci rimane l’impronta addosso.
Non solo dei dolori più grandi, non solo degli amori più importanti, ma persino di chi abbiamo ignorato per distrazione.
Perché tutto ciò che ci capita ci riguarda. Tutte le persone che incontriamo, anche quelle che evitiamo.
Ci sono legami irrisolti che gravano sul petto come il cambio di stagione negli armadi che non abbiamo ancora fatto. Un fastidio capillare che si acquatta sul fondo, senza mai scomparire. Un veleno che rischia di contaminare tutti gli altri rapporti che fanno capo a noi.
Quei legami che sono rami secchi – eppure non riusciamo a tagliarli.
Se un rapporto è vivo, non abbiamo bisogno di oggetti che lo tengano in piedi. Non abbiamo bisogno di testimonianze, di garanti.
Non abbiamo bisogno di messaggi o di regali che ci possano ricordare chi eravamo, il giorno in cui litigheremo.
O lo sappiamo – che siamo forti, che il rapporto è forte – o non ne siamo mai stati veramente sicuri.
Il discorso sul riordino tocca sul vivo una questione vasta e drammatica che è costantemente all’ordine del giorno: le stridenti contraddizioni a cui il cosiddetto progresso capitalistico e tecnologico ci sta portando, col nostro consenso.
Più che di progresso si tratta della progressione verso un accumulo disordinato di masse amorfe, irriconoscibili, che seppelliscono ciò che è vivo.
Un mare incontrollabile di forzato oblio steso su ogni angolo che si offre anonimo alla nostra visuale.
Spesso le nostre stanze, le nostre case, le nostre borse assumono lo stesso aspetto. Le nostre relazioni, anche.
L’oblio è un’aquila bicefala, culla e annienta. Costringe alla ritirata quello che c’è di più autentico, quello che vale la pena curare. Lo costringe al silenzio, con dolcezza.
Sembra incomunicante il mondo col nostro armadio… eppure ce lo stipiamo dentro, come tutto quell’ammasso di cose in merito alle quali non vogliamo prendere una decisione, come tutto quel “domani” con cui in realtà non vorremmo mai avere a che fare.
Tutto ciò che separiamo da noi – che spranghiamo fuori dalla nostra vista immediata – ci opprime in segreto.
Ecco perché il riordino può scatenare un potere magico.
Non c’è nulla di sovrannaturale nell’aggettivo “magico”: riguarda semplicemente l’atto intenzionale, sacro, di liberare la voce strozzata che ci tormenta. Quella stessa voce che può librarsi e rivelarsi solo in uno spazio essenziale, nitido.
C’è una differenza abissale tra il riordinare per tenere puliti gli spazi e il riordinare per ritrovare la propria voce. Le proprie radici.
Il senso che ci polarizza verso le scelte che ci rappresentano veramente.
Si toglie, si elimina, si congeda non ciò che non ci serve più, ma il nostro sguardo assente che nel tempo ci ha portato fuori strada, la nostra fretta, quel terrore mascherato da ingannevole pretesa che il nostro mondo possa fare a meno di noi. Che possiamo sparire da un momento all’altro lasciando ogni cosa in sospeso, a finire al nostro posto.
Spariremo senza aver deciso, questo speriamo sotto sotto.
Lasceremo i biglietti che abbiamo ricevuto, le fotografie, i braccialetti, l’orologio mai fatto riparare.
Con la scusa di conservarlo, tradiremo ciò che oggi non riusciamo a lasciar andare, e lo faremo da codardi: lasciandolo in attesa di noi.
Nel frattempo restiamo appesi all’attesa di capire dov’è il confine tra le nostre cose e quello che – invece – vogliamo
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Articolo di Margherita Cardetta per generazionebio.com
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