Per chi segue da tempo il sito di Generazione Bio e la rubrica Se per gioco fosse vero, il concetto dell’utilità delle emozioni negative non risulterà estraneo come potrebbe sembrare di primo acchito a chi crede che pensare positivo significhi semplicisticamente evitare pensieri, reazioni e stati d’animo negativi.
Autori come Yehuda Berg e Salvatore Brizzi, ai quali in passato ci siamo riferiti, più o meno approfonditamente, spiegano in modo esauriente l’importanza che riveste nella mistica ebraica e nell’alchimia spirituale la capacità di lavorare sulle proprie zone d’ombra senza cedere alla tentazione moralista di censurarle.
Il motivo è spiegato altrettanto efficacemente da un gigante della psicologia dell’inconscio individuale e collettivo, Carl Gustav Jung: ciò che rifiutiamo è destinato non solo a durare, ma alla lunga a dominarci.
Questo perché noi esseri umani abbiamo con qualunque aspetto dell’universo con cui ci relazioniamo un rapporto di interdipendenza, quindi tutto ciò che carichiamo di un’intenzione negativa è destinato a rimanerci attaccato, come una cambiale insoluta.
All’intenzione negativa dobbiamo fare attenzione più che agli stessi stati d’animo negativi che sperimentiamo.
È importante cogliere questa differenza.
Un conto è provare rabbia, o gelosia, o invidia. Un altro conto è fare di queste emozioni uno strumento energetico per colpire l’altro.
Solo in quest’ultimo caso restiamo legati a doppio filo agli effetti di quanto stiamo provocando.
La rabbia in sé, l’invidia in sé, la gelosia in sé… non hanno nulla di negativo. Negativa può essere solo l’intenzione con cui ci appropriamo della loro energia per fare consapevolmente del male.
Ma se torniamo indietro, e analizziamo i passaggi che ci portano dall’insorgere di un’emozione potenzialmente distruttiva fino al punto in cui siamo pronti a esprimerla con un insulto o con una controllata strategia vendicativa, riusciamo a trovare la zona franca su cui ogni lavoro non è mai sprecato.
Cosa significa, infatti, lavorare su se stessi?
Significa allenarsi a percepire il segmento che ha origine nel punto in cui finisce ciò che subiamo e che termina nel punto in cui inizia la nostra decisione in merito, ovvero ciò che abbiamo intenzione di fare.
Spesso l’impulsività, la fretta di sfogarci, ci rendono ciechi rispetto a questa zona di transito tra la passività e la proattività, ma ciò non vuol dire che questa zona non ci sia.
Esiste, e vale la pena esplorarla.
Quella lì è la nostra zona di potere.
La zona che può fare la differenza nella nostra vita.
L’unica.
Il segmento lungo il quale ci trasformiamo da vittime a protagonisti di un’iniziativa la cui responsabilità ricade esclusivamente su di noi.
Se il potere comporta degli oneri, è vero anche il contrario: più responsabilità saremo disposti ad assumerci, più crescerà il potere che saremo in grado di gestire.
Di cosa dovremmo prenderci la responsabilità?
Di ogni parte di noi.
Di ogni aspetto, specialmente di quelli che non vorremmo che gli altri vedessero per evitare la sensazione più insopportabile di tutte: la vergogna, il senso di umiliazione.
La società in cui viviamo si regge sistematicamente sul senso di umiliazione.
Per evitare di sentirci umiliati saremmo disposti a tutto.
Ed è proprio così che diventiamo manipolabili: rendendoci disposti a tutto. Siamo di fatto una massa di manipolati.
Pensate a quante cose innaturali e faticose siamo disposti a fare pur di non sembrare ridicoli, deboli, impauriti, ignoranti, fuori moda, fuori forma, fuori ruolo, fuori posto.
Quasi mai il gioco vale la candela.
Pensiamo che le finzioni in cui sguazziamo derivano da un irresistibile impulso di esibizionismo: invece il più delle volte nascono proprio dal terrore di provare vergogna di fronte agli altri.
Pur di non dover soffrire ferite emotive ci improvvisiamo strateghi dell’elusione: un’attività sottile, sfuggente, molto remunerativa.
Infatti, veniamo pagati volentieri proprio per essere chi non siamo.
E noi più andiamo avanti più non abbiamo alternative. Così ci adeguiamo. E le finzioni, lì per lì innocenti, quasi inavvertite, si rapprendono come cemento rapido: in un attimo ci ritroviamo a essere chi solo ieri odiavamo.
È così che la negatività ci incolla a chi neghiamo.
È così che ci attiriamo chi odiamo.
È così che la paura della vergogna ci manipola per conto di chi non amiamo.
Fateci caso.
Chiedetevi cosa vi vergognate di aver fatto nella vostra vita e provate a non trovare un collegamento tra ciò di cui ora vi pentite e la vergogna che all’epoca, proprio grazie a quello che avevate fatto, vi siete evitati di provare.
Pensate alla ragione più stupida per cui istintivamente si mente, o meglio, si evita accuratamente di dire:
Ho sbagliato, non ce la faccio,
ero distratto, ho dimenticato,
ho avuto paura, scusami
Pensate alle volte in cui poco prima di mentire abbiamo pensato: ‘e no, che figura ci faccio?!’
Pensate a tutta la tensione che accumuliamo per tenerci a galla in questa società tenuta insieme solo grazie al potere subdolo della vergogna.
Ne vale la pena?
Se pensate di sì, non sarete mai soli, e questo conforta.
Se pensate di no, preparatevi a essere incompresi, e questo fa soffrire.
Qual è il male minore?
Non soffrire.
Qual è il vantaggio immediato?
Non soffrire.
Qual è il premio che riceviamo?
Non soffrire.
Fino a quando può durare?
Fino a quando non ci troviamo puntati negli occhi gli occhi di chi invece ci ama, gli occhi di chi ha colto qualcosa di buono in noi – nonostante tutti i nostri percorsi accidentati.
Lì la responsabilità di non essere mai stati quello che siamo ci umilierà come tutta la polvere ammucchiata sotto i tappeti, e inizierà la salvezza.
Lì di colpo ci ferirà l’evidenza di una vita costruita per nascondere chi la abita.
Per paura della vergogna, ripudiamo noi stessi e rinunciamo al nostro potere.
Di cosa dovremmo mai vergognarci?
Di non essere al pari degli altri? Di non essere “sufficientemente” bravi, intelligenti, belli, a modo, ‘originali’?
Ora guardate negli occhi le persone il cui parere e affetto vi stanno veramente a cuore, e chiedetevi se quelle persone vi amerebbero di meno se ammetteste semplicemente che non ce la fate, che non volete, che avete paura, che vi sentite deboli, inadeguati.
Lì, proprio lì, è il vostro potere.
Perché nel momento in cui rinunciate a esercitare qualunque controllo esterno, nel momento in cui rinunciate a ogni strategia per gareggiare a chi galleggia meglio nella massa di innumerevoli nessuno, diventerete schiaccianti.
Capirete veramente chi avrete di fronte, e se quel qualcuno perderà l’occasione che gli offrite, che gli donate – per rivelare a propria volta la verità – non potrà recuperarvi più.
Di questo solo occorre aver paura: di perdere occasioni del genere.
Non si muore di vergogna.
La vergogna durerà dall’inizio alla fine di un breve segmento, ma poi avrete tutto il resto della vita da guadagnarci.
Chi vorrà restarvi accanto dovrà attraversare lo stesso segmento, e voi non dovrete fare sconti.
Va meritato così, il potere come l’amore: attraversando la fragilità, rispettando la fragilità, e risalendo dal suo cuore ferito.
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Articolo di Margherita Cardetta per generazionebio.com
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