Le città d’estate si svuotano ed i centri di mare e di montagna si popolano. I bambini insieme ai grandi si trasferiscono in zone più affollate che a gara offrono i migliori intrattenimenti per i nostri piccoli. Alcuni esempi sono efficaci, altri sono magnifici, altri ancora sono precari, superficiali e pieni di contenuti scarsi, ma i bambini, che per natura si accontentano, non riconoscono la differenza fra un gioco effimero e superfluo ed un altro funzionale alla loro miglior crescita. Tutto dipende dai contenuti che a casa e a scuola sono stati offerti alla sua mente assorbente, è indubbio. Ma ciò ci invita ad un’altra riflessione: le città che si spopolano di adulti e di bambini.
Come sono le nostre città senza bambini? Come sono invece con i bambini? Siamo sicuri di poter tratteggiare una differenza fra le due condizioni? Scommettiamo che è proprio difficile intraprendere un discorso del genere e stilare le differenze e le similitudini? Sono le nostre città a misura di bimbo? O lo sono perfettamente a misura di adulto?
Il campo di gioco rimane l’unico luogo nel quale si esplica il diritto dei bambini alla loro vita in città: esso rimane un esempio isolato di spazio pubblico volutamente progettato per l’attività ricreativa e ludica e ideato appositamente nella nostra società occidentale in nome del benessere e della protezione dei bambini. Nel tempo esso si è trasformato in spazio di controllo escludendo i nostri piccoli dallo spazio pubblico. Di pari passo viene a trasformarsi anche la complessa attività creatrice che è il gioco, attraverso la quale il bambino costruisce il proprio rapporto con la realtà dando a questa il suo senso originale. È un’attività limitata e quasi guidata dalla costrizione dello spazio sempre più circoscritto.
Gli amministratori, i politici ed i costruttori delle nostre città hanno scelto di considerare il bambino come categoria sociale per la quale è sufficiente l’introduzione di qualche attrezzatura destinata alla sua ricreazione. In fondo stanno operando in linea con la storia della pedagogia del ‘700 che insegna come opere pie, associazioni assistenzialistiche e benefattori privati si impegnarono al tempo a togliere dalle strade frotte di bambini per raccoglierli in strutture e ricoveri in cui non destassero più vergogna o sgomento comuni. Nella fattispecie i bambini liberi per le strade erano considerati devianti di un ordine urbano che andava imponendosi. I bambini, quindi, erano da relegare a spazi riservati e distinti da ciò che l’ambito urbano stava diventando: un luogo ordinato che non rispecchia certo il divertente caos infantile. Il pregiudizio sotteso a tale convinzione coincide con il bambino che crea ed è simbolo di disordine e di chiasso.
Nel nostro secolo i bambini a mano a mano sono stati relegati in spazi pubblici e privati in nome della loro tutela. Chi tra noi non ha memoria di ciò pensando alla propria infanzia e ai propri giochi di strada? Chi non ricorda quello specifico e tanto carino spazio verde o pezzo di cortile asfaltato in cui con i coetanei di condominio si divertiva tanto a palla avvelenata? E chi non commenterebbe oggi “….ma ora mio figlio è meglio che vada alla ludoteca o al baby parking! Troppo traffico, troppe case, troppo di troppo!”, ma le ragioni della trasformazione da città aperta ai bambini a spazi cittadini destinati ai bambini c’erano, anche se poco chiare, negli intenti nascosti di chi costruiva in favore degli adulti.
Arrivando all’epoca contemporanea si nota in modo sempre più lampante che i bambini sono stati sempre più costretti in ghetti pedagogici, luoghi che hanno costretto i nostri piccoli ad una sorta di isolamento sociale o di repressione della creatività. Non sono mai esistite le città dei balocchi, le città dei giochi a più non posso! E, a dirla tutta, anche il caro Collodi – filtrato da un’interpretazione veloce – aveva in effetti definito negativamente la città a misura di bimbo! Sacrificare la scuola ai giochi non era efficacemente educativo! Ma è proprio così? È questo che la pedagogia moderna e contemporanea insegna? No di certo. Nel gioco, nel passatempo e nel diletto si cela la migliore metodologia di studio. Una sana politica architettonica, allora, rispettosa delle aree di crescita e di espressione dei bambini dovrebbe lavorare per definire spazi attigui, comunicanti e complementari tra quelli infantili e quelli adulti. In entrambi si opera un lavoro a ben vedere: il lavoro di costruzione della propria identità in crescita ed il lavoro per migliorare il bene comune e il bene personale e specifico.
D’altronde è facile constatare che i nostri bambini – i bambini di oggi – sono sempre più curati e protetti e che hanno a disposizione opportunità che prima non erano pensabili, ma che vivono sempre più in una condizione di isolamento domestico (anche se sono in vacanza!). Tra le fondamentali esperienze di crescita e di conoscenza, l’ esplorazione autonoma del proprio ambiente di vita è fondamentale per l’ armonia dello sviluppo psicofisico.
Quando ancora si pensava a come rendere l’ambiente urbano più ordinato e sorvegliabile, (quando ritroviamo nella nostra memoria infantile i nostri spazi liberi) la libertà di spostamento permessa ai bambini, implicita nell’attività di esplorazione, era concessa loro maggiormente, così come era concessa la disponibilità di esperienze ambientali e di contatto con la natura. Queste sono esperienze primarie al contrario di quelle di interazione con la realtà virtuale dilagante che andrebbero circoscritte e non estese nel tempo e che sono esperienze secondarie.
Le esperienze primarie sono fondamentali per la costruzione di un io sano e di una forte autostima che si sviluppano solo se si è fatta in misura sufficiente esperienza diretta delle proprie capacità in relazione a quelle dei propri simili; il continuo confrontarsi con modelli irraggiungibili provoca invece sofferenza e senso di frustrazione nei bambini, non tanto per ciò che non è lecito fare quanto per ciò che non si può materialmente fare
(La città in gioco, Anna Lisa Pecoriello, Università degli Studi di Firenze, 2002).
Non è pensabile impedire ai bambini l’esperienza dell’avventura entro la quale loro sono i protagonisti ed in cui assumono i ruoli diversificati impliciti nel contesto della scoperta, dell’esplorazione, della riuscita personale e di gruppo, dell’ingegno, del sacrificio e del successo. In realtà l’iter educativo pedagogico contemporaneo si organizza in spazi temporali sempre più controllati e pianificati in cui si affidano i nostri bambini ad un sempre maggiore numero di servizi a loro dedicati, quali ludoteche, centri gioco, parchi tematici, spazi ricreativi per famiglie con aree di gioco, baby parking, aree riservate ai bambini nei supermercati, nelle stazioni e negli aeroporti. Da ciò, la possibilità di usufruirne da parte dei bambini diventa una pseudo scelta da parte dei genitori che, se da una parte si affidano a professionisti del settore, dall’altra evitano di scegliere in autonomia lo spazio di destinazione del gioco del loro bambino. In questo contesto si definisce “scelta” quella fatta se meglio si organizza insieme al proprio bambino e non per il proprio bambino la sua vita sociale. È come dire, più economico approfittare di questo servizio o di quest’altra attività e non impegnarsi in prima persona a scegliere con il bambino come deve lui occupare il suo tempo (non il nostro!).
Una possibile soluzione
Spezziamo una lancia in favore dell’ambiente naturale quale ambiente educativo primario e non ci giudichiamo incapaci nel crearlo o ri-crearlo in città. Anche l’ambiente urbano può diventare naturale e ciò diventa possibile quando è rispettata la propensione dei bambini all’esplorazione, all’avventura, alla loro capacità di mettere in relazione più contesti e soprattutto alla loro capacità di costruire. A partire da spazi scolastici è possibile, coinvolgendo un tipo di architettura sensibile, attenta e funzionale al puerocentrismo, metter su spazi in cui la città diventa ambiente di apprendimento spontaneo. In un ambente di questo tenore si attuano tre tipi di attività fondamentali per lo sviluppo dei bambini:
- Il gioco – l’ambiente naturale offre infinite possibilità di gioco creativo e di gioco di movimento (alberi, colline, prati)
- L’apprendimento – imparare in un luogo naturale ha come caratteristica l’immediatezza (osservazione della flora e della fauna, i cicli delle stagioni)
- La cura – seminare il sentimento futuro di cura per la vita, per il pianeta, per l’altro in sé (mettere un seme nella terra e vedere spuntare una piantina, allevare un cucciolo, nutrirlo e provvedere al suo benessere, trasformare un terreno incolto in un orto o un giardino).
Per concludere e tornare alla nostra estate che ha costretto le città a fare a meno di bimbi “nascosti” negli spazi ben architettati per loro. Sarebbe molto bello il rientro in città dopo un’estate di svago senza età (di grandi e piccini) con questi buoni propositi: costruire una città aperta alla natura, sinonimo di spontaneità e semplicità, sinonimo di spirito infantile. Ma è altrettanto difficile pensare ad attuare con naturalezza una città che calzi a pennello a bambini e a grandi perché la differenza principale tra i bambini e noi adulti sta nel fatto che i bambini non hanno interessi economici e di potere che li fanno primeggiare.
È pero importante riflettere sul dovere morale degli adulti di lasciare in eredità coerenza architettonica ed educativa e non conflitto e distruzione: proviamo ad osservare quello che un bimbo sa fare senza giochi precostruiti in una scena di natura, osserviamolo ed impariamo da lui a creare senza barriere ed ostacoli.
E subito dopo stupiamoci di quanto siamo limitanti nei confronti della loro elasticità mentale.
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Articolo e immagini di Marzia Colace per generazionebio.com
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