Prendiamo il verbo “toccare” e perdiamoci dentro.
Chi l’ha detto che le sensazioni stanno da una parte, col cuore a fare da svenevole garante – e la testa, la ragione dall’altra?
Toccare, essere toccati, toccarci.
Di colpo si apre il ventaglio dei significati a noi più prossimi.
È la vita che si tocca.
Il dolore e l’estasi nel punto in cui le parole non ce la fanno ad arrivare.
Toccare con mano.
Sapere ciò di cui si parla, non poter più aggiungere nulla se non rinviare alla stessa ineffabile esperienza.
“Toccare”, il verbo che rimanda intuitivamente a ciò che non si può capire.
E sia.
Ma non sono solo le mani, le superfici, i corpi – qualunque confine posto tra un’identità e l’altra – a rientrare nel privilegio del tatto.
Il tatto è il nostro respiro intero.
Non solo ciò che possiamo avere tra le mani, in mano o a portata di mano, ma l’intera intenzione del nostro essere, anche quando si limita a pensare.
Noi siamo tatto. Siamo fatti di tatto.
Siamo il sentire che cerca di imparare a camminare, a volare, a farsi conoscere e riconoscere, sul crinale tra visibile e invisibile.
In una mano che si tende, nella mano che la prende, in una semplice carezza, c’è il miracolo più straordinario in atto.
Quello di un pensiero e di un sentimento che si incarnano all’istante sotto gli occhi di tutti.
L’energia che si fa materia.
L’onda che diventa particella.
Ora possiamo vederla, misurarne la posizione, parlarne.
Ma solo un istante prima dov’era?
Non c’era. Eppure era.
L’amore, quella carezza che non passa.
Per chi crede ancora in un universo deterministico, nel fato, nella causalità degli eventi e dei nostri stati mentali, e del rapporto che tra essi intercorre… pensate alle carezze.
A come nascono al di fuori della realtà, in un punto che non sappiamo localizzare nel tempo tra il nostro cuore, quello degli altri – chi abbiamo perso e chi non è ancora – e mille ragioni che potrebbero non bastarci mai a prendere per mano chi abbiamo accanto.
Pensate a quanto si può imparare attraverso i contatti tra un confine e l’altro, e a come si può dilatare ogni confine vedendolo sempre più da vicino, fino a far di esso un assoluto momento di amnesia in cui tutte le separazioni si annullano – un arcobaleno al limite tra il vuoto e la presenza.
Cosa rimane, in queste esperienze, del mondo che conosciamo?
E cosa ci rimane realmente di queste esperienze?
L’aver vissuto l’emozione di essere onda e particella, quel paradosso che conosciamo tutti da quando per la prima volta abbiamo sentito parlare di fisica quantistica e del ruolo decisivo che nel suo quadro teorico svolge l’osservatore rispetto a qualunque cosa stia osservando.
Che noi siamo così influenti lo capiamo ogni volta che riceviamo e facciamo una carezza, ogni volta che di punto in bianco smettiamo di essere pedine in attesa di essere provocate per diventare l’insospettabile innesco di una serie di conseguenze imprevedibili.
Perché a una carezza ciascuno resta libero di rispondere come vuole, ma persino l’impassibilità non toglierebbe mai a un gesto del genere la magia del mistero della sua provenienza.
Il suo iniziare da un momento ‘invisibile’ – e il suo potenziale non finire mai.
Nessuno sa da dove si inizia ad accarezzare qualcuno, o qualcosa…un’idea, un paese, un sogno, un amico, un progetto, una madre, un figlio.
Le carezze ci attendono sospese nei riflessi che le superfici delle cose offrono all’inizio e alla fine del giorno, fili che s’ingrosseranno fino a traboccare o che resteranno impigliati in un tentennamento stringente.
Così nascono le sfumature che rendono bella la vita: dall’infinito che si rivela tra una parola e il silenzio, tra un indizio e un ‘peccato’, tra un ‘non più’ e un ‘non ancora’.
Lì ci accorgiamo per la prima volta di avere una qualche attendibile idea di ciò che siamo veramente, e non ci sentiamo miseri, né traditi.
Siamo niente meno che la possibilità costante di un nuovo inizio, a patto che non lo riteniamo noi stessi una semplice illusione, un’impressione di passaggio, una distrazione, un’inopportuna nostalgia.
Perché a quel punto scomparirà davvero.
E avremo avuto ragione.
Qui nulla nasce e nulla perdura se non ci mettiamo le mani, e con queste il cuore, e con il cuore la testa, fino a raggiungere la massa critica di noi stessi, di tutti i mondi possibili che ci portiamo dentro.
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Articolo di Margherita Cardetta per generazionebio.com
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