È solo conoscendo gli altri che iniziamo a conoscere noi stessi. Questo significa che ciò che siamo non è meno misterioso e imprevedibile di ciò che in ogni istante potrebbe venirci incontro.
E significa anche che in tutti noi esiste un lato oscuro, una fonte nascosta e spesso insospettabile di reazioni che lì per lì non riconosceremmo mai come parte integrante della nostra natura, perché ci viene più automatico concentrarci su chi e cosa ci stanno provocando delle sensazioni sgradevoli che sulle nostre stesse reazioni.
Eppure sono proprio queste che rappresentano la realtà più prossima, l’unica che potremmo mai veramente conoscere – e cambiare.
Anche quando abbiamo reazioni spropositate, la colpa è sempre di chi ci provoca: così ci giustifichiamo ad attaccare a nostra volta.
Ma cosa succede se, al posto di scattare come molle contro l’altro, ci ricordiamo di noi stessi, del fatto che non siamo preda dell’altro ma del nostro lato oscuro?
E per oscuro non si intende “cattivo”, “sporco”, “negativo”, ma semplicemente “non illuminato”, non rischiarato dalla comprensione dei nessi di appartenenza al nostro essere più autentico.
La rabbia, l’invidia, il risentimento, l’odio…. in sé non hanno nulla di negativo: negativa può essere solo la nostra decisione, il più delle volte inconsapevole, di assumere queste emozioni potenzialmente distruttive come stati d’essere perduranti.
Negativa può essere solo la convinzione che attaccando, rispondendo colpo su colpo o addirittura anticipando i colpi che immaginiamo di dover ricevere, possiamo tutelare e promuovere quel noi stessi che continuiamo a non voler conoscere, per ignoranza o per paura.
È allora che il nostro lato oscuro si fa negativo, nel tenace rifiuto di riconoscere le nostre falle, le nostre debolezze.
Questa società ci ha insegnato che vincere è più importante di tutto, così la paura di rinunciare alla convinzione di essere migliori degli altri è diventata il blocco più grande, l’effettivo male di vivere che conosciamo attraverso le manifestazioni capillari della depressione, dell’ansia, della violenza irrazionale contro gli altri non meno che contro se stessi.
Tutto il male che vediamo fuori non è che il male che nessuno è disposto a vedere in se stesso. È come il figlio ribelle cacciato di casa che per attirare la nostra attenzione si mette a imbrattare tutti i muri del paese.
È il rifiuto l’origine del male.
In fondo non è questa la nostra paura più grande? Essere rifiutati.
Pensiamo a ciò che siamo in grado di fare per paura di essere rifiutati: tenerci per noi stessi tutto il bene di cui siamo capaci perché gli altri non lo meritano o perché per lo meno – prima – devono dimostrarci di meritarlo. E diventiamo a nostra volta quei professori inflessibili che tanto abbiamo detestato. Saliamo sui piedistalli della nostra tristezza ammantata di presunzione. Oppure finiamo col credere di non bastare, di non meritare la stima e l’amore degli altri. Sono due facce della stessa medaglia: io valgo più di tutti, io valgo meno di tutti. La medaglia che si dà ai vincenti e si nega ai perdenti. L’amore. Quell’amore che ci hanno insegnato a inseguire – e mai a essere. Si insegue ciò che si crede sia “lì fuori”, ma quando inizi a realizzare che il fuori non è che la cassa di risonanza o il riflesso di ciò che hai dentro, ti fermi, smetti di chiedere, di aspettare, smetti di sbattere i pugni sul tavolo – e ribalti il mondo.
Lo ribalti andando sistematicamente contro tutto ciò che hai finora inutilmente preteso.
Lo ribalti dicendo: ok, continuate pure….io ne ho abbastanza, e ora cambio rotta.
Ora divento io quello che ho sempre cercato. L’ascolto, l’accettazione, il bene disinteressato. Il sorriso, la pacca sulla spalla, un regalo, il buongiorno che rompe l’indifferenza.
Lì fuori è qui dentro.
Se lì fuori manca la gioia, io divento la gioia. La creo dal nulla, sì. Anche se la mia testa mi deride pensando che nessuno la meriti, là fuori.
Divento gioia perché sono stanco di aspettarla e perché tutto il bene che trattengo un giorno morirà con me dopo essere diventato tutto il mio rimpianto. Perderò? E che importa? Non voglio le vostre medaglie, non mi servirà passare per intelligente, bravo e astuto se alla fine sarò stato sconfitto proprio dalla mia paura più grande: quella di essere rifiutato. Avrò vinto solo per dimostrare a me stesso che valgo qualcosa. Per paura di non valere il mio stesso amore, avrò perso tutto il mio tempo a impedirmi di amare.
Questo è il vero volto di tutti i nostri successi. I titoli appesi alle pareti, qualifiche e alti gradi incorniciati, lucidati, i trofei, i riconoscimenti, i diplomi, le lauree, le promozioni. Tutti punti di merito che stanno lì a convincerci che la nostra vita non sta passando invano, che non siamo vuoti, che non siamo inutili, che non siamo comuni.
Pensate ora all’amore più grande di cui abbiate mai avuto esperienza o idea.
Pensate al primo attributo che lo connota. Non è forse la gratuità? Ti amo perché ci sei. Ti amo non perché sei il più bello, non perché sei il più buono, non perché hai vinto. Ti amo perché ci sei.
Il fatto che tu ci sia, per me è ragione follemente sufficiente perché ti ami.
Provate ora a puntare questo amore sulla rabbia che sentite dentro. Come un raggio laser che non ha pensieri. Siate quel raggio laser senza pensieri. Non pensate. Amate e basta. Lasciate stare chi vi ha procurato quella rabbia e il motivo per cui ve l’ha procurata. Sono solo pretesti per conoscere chi siamo, oltre ogni comoda classificazione.
È un’occasione, questa rabbia, coglietela! Permettetevi di sperimentare proprio su di essa la potenza dell’amore. L’amore non ha nulla di romantico, nulla di aggraziato, nulla di idealistico.
È una fiamma che rade al suolo tutti i fantocci. È la rinuncia ad ogni scusa, ad ogni fuga, ad ogni giudizio.
L’amore non è un premio, è la consapevole e libera sconfitta di ogni regola.
Ti amo perché ci sei, ti amo perché ci sono.
Fino a quando ci faremo mancare questo amore audacemente gratuito, la paura di non avere abbastanza e di non essere abbastanza armerà sempre il mondo di cui faremo parte contro di noi e ci costringerà a correre più forte, sempre più forte, per farci notare, e a confondere la vittoria con il vero obiettivo della nostra corsa.
Continueremo a mettere sotto chiave i nostri trofei per paura che ce li rubino, continueremo a mettere sotto contratto i nostri affetti per paura che ci tradiscano. E uno stato di tesa e continua vigilanza diverrà il nostro umore più stabile. Diremo che abbiamo le nostre ragioni, ma che in fondo valiamo più di quello che non dimostriamo. Chi potrà mai crederci?
Ci diranno che abbiamo ragione, ma poi ognuno proseguirà per la propria strada. Cosa avremo ottenuto?
Continueremo a fingere che tutto questo gioco al risparmio sia meglio del rischio di un amore sprecato.
E quello sarà invece l’unico vero spreco: tutto il tempo durante il quale ci saremo accontentati del minimo, di quel minimo che sappiamo di noi, di quel minimo che sappiamo degli altri e che saremo stati in grado di suscitare in essi, di quel minimo che ci saremo fatti bastare a fronte di tante vuote pretese.
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Articolo di Margherita Cardetta per generazionebio.com
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