Se siete frequentatori abituali delle librerie, mainstream e di nicchia che siano, vi sarete imbattuti sicuramente in sezioni più o meno nutrite che vanno sotto la generica etichetta new age, e vi sarete regolati in base a ciò che per new age intendete, dalle canalizzazioni di esseri intangibili agli inviti incalzanti a pensare in positivo. Vi sarà capitato anche di imbattervi in collane che vanno sotto il nome di “scienza della mente”, “metafisica” e “nuovo pensiero”. Saprete anche come succede: se doveste seguire il filo logico dei vostri giudizi, passereste oltre; ma ci sono giorni (diciamo anche soltanto istanti) in cui l’occhio sembra andare per conto proprio, quasi si fosse preso una vacanza da voi stessi. È allora che solitamente accadono gli incontri più improbabili, tipo quello che feci una sera con l’antologia delle conferenze tenute da Neville Goddard tra gli anni Cinquanta e Sessanta sui rapporti che intercorrono tra atto immaginativo, emozione, fede e realtà:
l’immaginare crea la realtà, e cambiando il nostro modo di immaginare cambieremo i fatti
La tesi appare semplicistica quanto insostenibile – insostenibile secondo i canoni percettivi e interpretativi di cui nessuno può permettersi di non tener conto: la realtà, che ci piaccia o no, resta il punto di partenza immediato e imprescindibile per ogni riflessione, profonda o superficiale che sia.
Realtà è ciò che mi sta di fronte e intorno, realtà è ciò che l’altro mi fa, ciò che mi dice, realtà sono gli abbandoni e le dipartite che in nessun modo sono riuscito ad arrestare… realtà è tutto ciò che mi delimita, che mi condiziona, imponendomi cose, eventi, ostacoli, divieti che ragionevolmente non posso aver creato io: altrimenti li avrei sicuramente evitati a me stesso, o quanto meno modificati.
Come posso aver creato tutto ciò che non ho voluto e che non voglio?!
Il processo avverrebbe inconsciamente. La realtà non coinciderebbe con lo stato attuale dei nostri pensieri e delle nostre emozioni (che sono il riflesso delle nostre convinzioni), ma seguirebbe a uno stato mentale ed emotivo precedente o talmente radicato e intenso da sfuggire alla nostra coscienza.
Io non posso aver creato la realtà, benissimo. Però c’è da dire che ognuno di noi, sotto sotto, vive in una realtà propria. Lo si evince quando, di fronte al medesimo evento, reagiamo in modi diversi – dipende soltanto dal carattere, dalla personalità? sicuri? – reagiamo come se lo stesso evento non fosse un accadimento univoco, ma un vissuto multidimensionale, scomponibile in tanti strati quanti sono i soggetti che ne sono testimoni.
Anche gli altri non sono mai quello che sono, ma quello che noi siamo convinti (o ci stiamo convincendo senza rendercene conto) che siano… e questa convinzione è passibile di continue modifiche: finiamo di conoscere qualcuno solo se decidiamo di accontentarci di vederlo secondo l’ultima impressione che in ordine di importanza ci ha fatto. Allora quella persona – se non dovessimo più avere modo di incontrarla, sentirla, riscoprirla secondo una notizia sul suo conto che magari ignoravamo – resterà “per sempre” così. Quella persona resterà “sempre” così anche nel caso in cui ad ogni nostro nuovo incontro la affrontassimo sempre secondo l’emozione dominante che ci suscita (e siamo solo noi a stabilire quale sarà quell’emozione, se di rabbia, biasimo, sospetto…).
Ed è qui che varrebbe la pena prestare attenzione alle parole di Goddard, anche se quella sua tesi di fondo [io creo la (mia) realtà] continuasse a suonarci così inverosimile:
Il comportamento degli uomini mi dice costantemente chi io mi sono convinto di essere.
Per cambiare un altro nel mio mondo devo prima cambiare il mio concetto di quest’altro; e per farlo al meglio devo cambiare il mio concetto di me. Poiché è il concetto che ho di me che mi fa vedere gli altri come li vedo.
Non credete neanche per un secondo che vi sto dicendo di scappare dalla realtà quando vi sto semplicemente chiedendo di convincervi di essere ora l’uomo o la donna che volete essere.
Se cambio il mio concetto di me, cambio il mio mondo
Cosa significa? Significa che se ho di fronte a me una persona che mi colpisce con un pugno, io stesso gli ho permesso di farlo. In che modo? Alimentando in me stesso l’idea di essere una persona che avrebbe meritato di essere colpita. Magari oggi ho cambiato opinione sul mio conto, ma non servirebbe a nulla prendermela con chi ho di fronte: devo convincere solo me stesso di meritare un trattamento migliore, e posso farlo reagendo come se l’altro non fosse il mio nemico, ma il mio (inconsapevole) alleato. Cambiando opinione di me stesso (“merito di essere trattato bene”) cambio il mio modo di trattare l’altro e quindi cambio l’altro. Ho voltato pagina. Se avessi reagito colpendo a mia volta l’altro, avrei rafforzato una posizione che mi vedeva perdente e costantemente minacciato dal mio aggressore e da chiunque altro. Si potrebbe obiettare: ma l’altro merita di essere punito, merita di pagare per avermi colpito. Quello che conta sottolineare non è l’ingiustizia inscritta in qualunque atto di violenza, ma il fatto inconfutabile che le nostre reazioni nei confronti delle persone e della ‘realtà’ che ci circonda sono automaticamente provocate dal modo in cui stiamo definendo il nostro ruolo rispetto a tutto ciò che ci sta accadendo: nel momento in cui ci lasciamo sopraffare dalla percezione dell’ingiustizia dilagante nell’agire degli altri, ci stiamo silenziosamente autodefinendo impotenti, ci stiamo silenziosamente dando il permesso di non fare la differenza, ci stiamo silenziosamente sollevando dalla responsabilità di impegnarci nella direzione che vorremmo tutti prendessero.
Se cambio il mio concetto di me, cambio il mio mondo
Neville Goddard (e chi come lui) ci sta dicendo che non è coi mugugni, con le prediche, con le punizioni e i ricatti emotivi, con le manipolazioni affettive che possiamo sperare di influenzare il nostro prossimo nella direzione che vogliamo tutti prendano, ma osando rinunciare in prima persona alla via più larga e agevole, quella dell’odio, osando andare controcorrente, sfidando l’abitudine a pensare che per poter essere legittimati a cambiare in meglio devono prima cambiare in meglio gli altri e il resto del mondo.
Se diventassimo emozionalmente eccitati per i nostri ideali come lo diventiamo riguardo ciò che odiamo, ci eleveremmo al piano dei nostri ideali con la stessa facilità con cui ora discendiamo nei bassi livelli del nostro odio
Neville Goddard (e chi come lui) vuole dirci che, allo stesso modo, se pensiamo che una persona “approfitta” a qualche livello di noi è come se inducessimo mentalmente quella persona a comportarsi in modo da avverare la nostra credenza, ovvero il nostro dubbio che presumiamo essere una certezza.
Le nostre credenze tendono sempre ad avverarsi nel male, non è vero? E allora perché non fare in modo che il meccanismo giochi in funzione del bene, nostro e di tutti?
Ammettiamo che la persona che secondo noi è intenzionata a danneggiarci si approfitti davvero di noi: se noi lo pensassimo davvero, dato che IL PENSIERO TENDE A CREARE NEL TEMPO UNA REALTÀ CHE LO RISPECCHI, potremmo ottenere solo la conferma a un’ipotesi negativa che di certo non ci gioverebbe. Quindi, IN OGNI CASO, ci converrebbe pensare di questo ipotetico approfittatore il meglio: se fosse di suo ben disposto, e se quindi ci sbagliassimo sul suo conto, miglioreremmo le sue buone intenzioni, se invece fosse mal disposto….NE CORREGGEREMMO IL TIRO.
È questa la ragione esoterica alla base dell’invito evangelico a porgere l’altra guancia. Non dobbiamo porgere l’altra guancia per essere buoni e meritevoli del meglio: dobbiamo porgere l’altra guancia per sovvertire i rapporti di forza, per spezzare le abitudini mentali che ovunque tengono in piedi la violenza e quell’inconsapevole senso di umiliazione, di inferiorità, che l’attrae a sé. Non serve piangere a causa di ciò che non vogliamo, è invece necessario smettere di agire e di pensare come se fossimo l’altra faccia della luna, quella sempre in ombra, quella invisibile. E incolpevole.
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Articolo di Margherita Cardetta per generazionebio.com
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