C’era una volta una bambina che aveva un padre sempre occupato col proprio lavoro. Spesso non lo vedeva per giorni interi e confondeva nella propria mente i tratti del suo volto. Quando imparò a scrivere, prese l’abitudine di lasciargli dei biglietti sul mobile di fronte all’ingresso di casa, in modo che rincasando sul tardi, quando lei era già a letto, lui li avrebbe trovati. Crescendo, abbandonò quella consuetudine, ritenendola in cuor suo sciocca, infantile. Il giorno del suo diciottesimo compleanno trovò sul letto una splendida borsa, regalo dei suoi genitori. Un’idea di sua madre, pensò. Un simbolo importante. Solo che non la usò neanche una volta: non che non le piacesse, era che portandola sentiva come se stesse caricandosi sulla spalla un’identità che non le apparteneva. Qualche settimana dopo, cercando tutt’altro, come sempre accade, trovò in un ripiano in alto della libreria del soggiorno una scatola blu, l’aprì e il tempo si fermò. C’erano dentro i biglietti che aveva scritto a suo padre fino a quando la percezione della progressione lineare, inarrestabile del tempo le aveva dato il permesso di farlo. Quello, pensò, era il regalo più bello che potesse ricevere: una scatola di attenzione gratuita. Passarono altri anni, ma nel cuore di chi cresce e invecchia c’è sempre una poltrona nascosta dietro una porta su cui è rannicchiato un bambino. La donna si trovò di fronte a un uomo più grande di lei, quasi tanto da potersi teoricamente considerare suo padre.
Lo ascoltava mentre le parlava di ragioni, doveri, parametri, assetti, scadenze, lungimiranza, responsabilità, tutti punti sui quali la donna non avrebbe avuto molto da ridire se non che non basta parlare alle persone, bisogna parlarci insieme, ascoltare e lasciare da parte, anche solo per un attimo, i ruoli, i cartonati dietro cui gli adulti, certi adulti, amano trincerarsi. Anche quell’uomo, si disse, un tempo era stato bambino, e sicuramente nessuno avrà conservato i biglietti a cui aveva affidato i suoi primi messaggi. A un certo punto lui le fece una domanda: secondo te in cosa dovrei migliorare? Lei rispose: nel dialogo. Le parole, aveva ragione Pirandello, sono solo illusioni d’intesa che nascondono le mille maschere dell’incomunicabilità. Tu dici dialogo, l’altro può capire autorizzazione a farsi i fatti degli altri. La donna provò a spiegarsi meglio, ma lui tagliò corto concludendo che, in ogni caso, per il dialogo mancava il tempo: c’erano troppe questioni molto più urgenti di cui un uomo come lui doveva occuparsi. La donna non si sorprese. Aveva imparato che quando qualcuno dimentica come ci si sente quando si è piccoli e non si è importanti – e si viene sempre dopo tutto ciò che invece è misteriosamente urgente – non può sapere cosa sia davvero il confronto.
Il confronto è il tempo che da bambini si impiega nel gioco, il tempo che si sceglie di prendersi – e basta. Perché ti preme capire, stare con l’altro, conoscerlo, e sai che un modo diverso per esplorare il mondo intorno a te non c’è.
Da bambini tutto è urgente e non si fanno classifiche, tutto e tutti vengono al primo posto, perché la vita accade attimo dopo attimo. Come se il tempo non esistesse. La donna pensò allora a suo padre. Di certo non si poteva dire che, all’epoca in cui gli scriveva, non fosse stato anche lui un adulto impegnato e responsabile quanto l’uomo che si ritrovava ora di fronte. Ma suo padre, lo scoprì proprio in quel momento – per contrasto, nell’evidenza di un dialogo impossibile – le aveva inconsapevolmente fatto dono di una lezione impagabile sull’essenza del tempo: quando il tempo manca, c’è sempre un modo per crearlo. Se vuoi, puoi. Il tempo te lo prendi, e basta. Perché il tempo non è un pacchetto di attimi ad esaurimento scorte, non è un contenitore immobile e neanche un nastro trasportatore. Il tempo è sempre ciò che segue istantaneamente una scelta, una presa di posizione.
Il tempo obbedisce solo a chi sa comandarlo. Il tempo siamo noi, e chi non sa comandare se stesso serve un’ombra alle proprie spalle, senza volto, senza espressione, senza storia.
Dire che non c’è tempo significa dire: non lo voglio fare.
La bambina non immaginava che con quei biglietti avrebbe creato un dialogo con suo padre oltre il tempo che non c’era e lo spazio dell’assenza, suo padre non immaginava che conservando quei biglietti anni dopo avrebbe fermato il tempo fino a riempire lo spazio dell’unica cosa che conti, in ogni rapporto: la qualità del pensiero.
“Basta il pensiero” non è solo un modo di dire.
Il pensiero che tu abbia pensato di lasciarmi qualcosa che stesse lì, al posto tuo, ad accogliermi al mio rientro.
Il pensiero che tu abbia dato valore a dei semplici pezzi di carta vedendoci qualcosa “di più”.
Il pensiero basta, purché sia forte, e faccia la differenza. E il pensiero che basta è un pensiero in grado di comprimere in un frammento, un sasso, una conchiglia, il tempo che si decide di vivere insieme, anche quando non ce n’è la possibilità. Allora ogni pensiero può diventare un mattone, e silenziosamente costruisce una fortezza che nessuno sa dov’è, e che per questo è inespugnabile. Creare il tempo significa esserne liberi, significa vincerlo con un atto di autentica, indomita premura.
Ma la donna non poteva chiedere tanto a quell’uomo, aveva già abusato abbastanza del suo tempo.
C’era una volta e ci sarà ancora mille altre volte il tempo alla ricerca di due che come bambini sapranno come crearlo, scomponendolo pezzo dopo pezzo come si fa coi giocattoli quando vuoi vedere cosa c’è dentro, fino ad arrivare al niente che siamo, qui ed ora, tu ed io – e basta. Fino a quel tempo sarà una teoria di tempi morti, di pezzi ordinati in serie, prima e dopo, promesse da mantenere, dati coerenti, eredità che non hanno previsto che nel frattempo saremmo cambiati; il tempo è così: se lo segui ti disconosce, se lo fermi ti rivela a te stesso oltre ogni normale sopportazione. E allora si capisce che c’è chi si accontenta di vederlo passare, come l’ombra di se stesso e di tutto ciò che è stato disposto a perdere.
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Articolo di Margherita Cardetta per generazionebio.com
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