Provate a indagare le passioni di chi vi è accanto. Per quanto possano sembrarvi frivole ed esagerate, vi troverete sempre una traccia preziosa per accedere a un mondo privato che altrimenti rischierebbe di sfuggirvi continuamente. Le passioni, foss’anche una collezione di tappi di bottiglie, non sono mai semplicemente una fissazione.
Sono il campo aperto di una sfida infinita tra chi ne è coinvolto e un fattore che non riuscirà mai a controllare.
Prendete per esempio per lo juventino medio sopra i trent’anni la passione implacabile per l’Europa: neanche milletrecentoquarantasette scudetti nazionali basterebbero a cancellare l’onta delle finali di Champions League perse d’un soffio dalla seconda metà degli anni Novanta in poi col Borussia, col Real, col Milan…fino ad arrivare all’ultima finale persa col Barcellona. Dòmini in Italia, ti annichilisci in Europa. Negli anni recenti è successo anche a Roma e Napoli, in periodi in cui stavano esprimendo un calcio migliore rispetto alla Juventus.
Viene da pensare che sia tutta una questione italiana e viene da pensare che tale questione possa essere catalogata sotto la voce ‘sudditanza’. Sudditanza verso chi e verso cosa? Verso tutto ciò che in noi stessi temiamo di non riuscire a cambiare neanche questa volta, nonostante l’impegno, nonostante prestazioni ottime, nonostante mantra spavaldi e propiziatori. La nostra passione infinita sembra proprio destinata a rimandarci ancora a una prossima volta che rischia di diventare una vera e propria ossessione.
Cosa è mancato alla Juventus che lo scorso 16 marzo, a 17 minuti dalla fine, stava letteralmente inchiodano fuori casa il Bayern Monaco su un 2-0 che neanche i tifosi più accaniti avrebbero ritenuto possibile? Esattamente cosa è mancato perché scoccasse il 3-0, ovvero quel colpo letale che avrebbe di fatto blindato il passaggio ai quarti di finale. Quel 3-0 sfiorato in più occasioni.
Un nulla, si direbbe.
Dall’altra parte dell’Allianz Arena, neanche il Bayern ci credeva. Non credeva al fatto che una Juve privata di pedine fondamentali come Dybala, Chiellini e Marchisio stesse avendo ragione di una compagine abituata da anni a primeggiare in Germania e in Europa.
È lì che la Juve ha perso la partita: ha lasciato che il timore prevalesse sulla percezione di un risultato che la stava premiando ben oltre ogni previsione.
Ci sono situazioni così, talmente belle che non riesci a credere ai tuoi occhi. Troppo belle. Troppo.
Il punto è che il nostro inconscio non prende alla lettera la realtà, ma ciò che più profondamente pensiamo (immaginiamo, anticipiamo) di essa.
È lo stesso motivo per cui, messi di fronte alla medesima realtà, tra di noi è così difficile capirci.
È lo stesso motivo per cui non si guarisce da una dipendenza solo perché si è riusciti a resistere per un giorno intero.
Perché alla nostra mente non basta l’evidenza di un solo giorno per convincersi di aver cambiato rotta? Perché ognuno di noi la realtà se la racconta a modo proprio. Posso anche essere ordinato per un giorno intero, ma nella mia testa so di essere disordinato. Avrò vinto la partita solo quando avrò imparato a pensare a me stesso come a una persona ordinata.
La realtà non basta, se bastasse sarebbe tutto più semplice. Basterebbe ogni volta l’evidenza di un attimo.
Ogni situazione ha dei limiti che la caratterizzano, ma conviene ricordarsi che questi limiti non sono principi assoluti, bensì convenzioni arbitrarie, relative, che solo attraverso la ripetizione possono dare l’illusione di una permanenza che siamo portati a scambiare per “realtà obiettiva”. ‘Obiettivamente, senza Dybala Chiellini e Marchisio, dove andiamo?’ ‘Obiettivamente, contro il Bayern quante possibilità possiamo avere?’ ‘Obiettivamente, in Europa, quando mai abbiamo avuto vita facile?’
“Obiettivo” è l’alibi che ci diamo per poter lasciare le cose come stanno. ‘Obiettivamente’ quasi ogni tifoso bianconero ha visto in tv la sera del 16 marzo il tracciato cerebrale e cardiaco delle proprie aspirazioni e delle proprie insicurezze.
È questa la sudditanza che ci frega: la rassegnazione istintiva alla prima reazione della nostra mente, in questo caso all’incredulità di fronte alle cose belle, quella reazione che ci siamo dati la pena di imparare meglio, la rassegnazione alla paura assurda di scoprire che in realtà la realtà è disposta sempre a dimostrarci che tutto è possibile: ma nessuno può credere ai nostri occhi al posto nostro.
E tra la realtà e il racconto che siamo propensi a farne, vince sempre il racconto. Obiettivamente.
Allora bisogna cambiare il racconto che raccontiamo a noi stessi. In modo che, la prossima volta che incontriamo il Bayern, incontriamo “solo” il Bayern e non contestualmente anche l’intera storia delle nostre disfatte.
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Articolo di Margherita Cardetta per generazionebio.com
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