Per colpa del “plus ultra”, Dante mise Ulisse nell’Inferno.
Né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né ‘l debito amore lo quale dovea Penelope far lieta, vincer potero dentro a me l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore; ma misi me per l’alto mare aperto
«De li vizi umani e del valore»: l’Ulisse di Dante non è più l’eroe scaltro e proteiforme che Omero ci ha fatto conoscere. Innanzitutto, è più uomo che eroe. Un uomo consapevole dei naturali confini tra i quali si dimena l’umanità, sempre in bilico tra l’essere meno e più di se stessa. Di quest’uomo, giunto ormai alla fine dei suoi anni migliori, Dante ci canta l’ardore incontenibile, come il più deprecabile dei vizi e, insieme, il più nobilitante dei valori. Di lui immortala quel coraggio che ovunque e in ogni tempo ha permesso la vittoria e il successo, a costo di mille pregressi brucianti fallimenti.
I “romantici” tedeschi lo chiameranno ‘streben’, ‘sehnsucht’, ed esalteranno come propriamente umana questa propensione connaturata nell’Ulisse dantesco a non accontentarsi e a varcare le colonne d’Ercole, ad andare incontro all’ignoto che nessun ordine religioso e morale garantisce dalla morte stessa, dal nulla.
Non è un caso che ritroviamo nella prima delle tre cantiche della Divina Commedia proprio quelle personalità storiche più vicine alla sensibilità contemporanea: non siamo forse noi gli epigoni dei più grandi trasgressori di limiti posti di volta in volta a tutela del modo più comune di pensare? Eppure siamo da sempre talmente oltre quelle colonne da aver perso di vista la radicalità, lo spessore della decisione di oltrepassarle. Avere dei limiti davanti a noi è l’unico modo per comprendere e sviluppare l’ardore di cui ci parla Dante attraverso il suo Ulisse. Solo a partire da limiti ben precisi possiamo parlare di “non plus ultra” e del suo contrario, ovvero di quel “più in là” che innerva il cuore fino a renderlo ardimentoso, nonostante l’incertezza dell’esito dell’impresa a cui ci consegniamo. La regione del “più in là” non è la stessa terra di nessuno in cui ci ritroviamo a godere di libertà acquisite e di bagni di sangue dimenticati: è quel rischio che ti impegni a non rimpiangere mai di aver corso, quel rischio al cospetto del quale gli affetti di cui sei acutamente consapevole e che sei disposto a sacrificare non perdono valore, ma diventano indicatori di valore. È il rischio di ogni lucida follia: Dante lo chiama “il folle volo”.
E volta nostra poppa nel mattino, dei remi facemmo ali al folle volo
Vale la pena considerare che Ulisse non è da solo davanti alle colonne d’Ercole. Con lui ci sono i compagni d’avventura di una vita, ed è a loro che rivolge l’esortazione divenuta tra i passaggi più celebri del XXVI canto dell’Inferno:
Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza
È emblematico dell’importanza di questo passo ciò che è scritto in seguito:
Li miei compagni fec’io sì aguti, con questa orazion picciola, al cammino, che a pena poscia li avrei ritenuti
‘Infervorai così tanto i miei compagni che, una volta che ebbero ascoltato le mie parole, a stento sarei riuscito a trattenerli’.
Un paio di settimane fa è salita agli onori delle cronache la questione dell’opportunità o meno di dare peso a un insulto di carattere omofobo rivolto dall’allenatore di una squadra di calcio ai vertici del campionato nazionale di serie A al collega della squadra avversaria durante una partita di coppa Italia. Dare o non dare peso alle sue parole? Il punto è un altro. Il punto è che le parole un peso ce l’hanno da sé e ce l’hanno sempre, indipendentemente dal contesto in cui possiamo utilizzarle e da tutte le attenuanti che possano essere chiamate in causa in casi specifici, come quello di una “semplice” partita di calcio e della trance agonistica che porterebbe a non ponderare attentamente gesti ed epiteti. Oltretutto siamo in Italia, il calcio smuove da sempre più interesse e adrenalina di temi obiettivamente più importanti, sei l’allenatore di una squadra da settimane prima in classifica: non puoi farla franca.
Lo sa bene Ulisse, quando, ormai all’inferno, riflette sull’autonomia acquisita dalla sua “orazion picciola”: non appena ebbe finito di pronunciarla, si accorse che già aveva raggiunto il cuore dei suoi compagni, quell’organo motore che nella vita come in ogni autentica opera d’arte fa di un uomo più di un mero, prevedibile esecutore di direttive. A Ulisse è bastato parlare per far spiccare a se stesso e agli uomini che erano con lui il “folle volo”. Questo proprio perché le parole hanno un peso e un’intrinseca credibilità. Che siano insolenti e avventate, placide e meditate. L’uomo è parola. Parola detta, letta, ascoltata, ricordata, onorata, tradita, silenziosamente illustrata o ispirata. Chi parla maneggia artiglieria pesante e, se gioca, scherza col fuoco – sapendo che brucia.
Il rispetto, da uomo a uomo, passa proprio di qui, dalla consapevolezza vigile dei limiti che oltrepassiamo, del valore come della superficialità del nostro oltrepassarli, dall’analisi degli intenti e dei moventi che ci sono dietro. Nessuno è perfetto, ma su questi moventi e intenti non si possono avere alibi, né si può barare: ne va della trasparenza della comunicazione e soprattutto dello straordinario potere che ogni parola ha di muovere il cuore di chi ascolta e di farci spostare “più in là” il peso dei nostri limiti (…).
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Articolo di Margherita Cardetta per generazionebio.com
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