Tutti noi abbiamo, in determinati momenti della vita, affrontato l’esperienza della perdita irreversibile della presenza di qualcuno e abbiamo sofferto in proporzione all’intimità e all’affetto che ci legavano a quel qualcuno.
Tutti noi soffriamo ancora, e talvolta ci sorprendiamo del fatto che la nostra vita e persino il mondo che le fa da sfondo stiano andando avanti, comunque. Si tratta di un’esperienza tanto comune quanto sfuggente al pungolo della ragione che non può darsi pace, perché è nella sua natura acquietarsi, accontentarsi solo quando trova una spiegazione. Allora, come spiegare l’esperienza del venire meno al mondo di chi misteriosamente, da un respiro all’altro, non c’è più? Chi ha fede, chi sa come inquadrare certi radicali trapassi in un’ottica che immediatamente li trascende, può provare un vago senso di accettazione, alla lunga. Ma chi è fermo all’evidenza più prossima di ciò che di fatto rappresenta un paradosso inquietante non ha alternative: deve registrare, tentare di assimilare la mancanza nella nuova piega che prendono tutti gli eventi e gli incontri successivi al suo irrompere. Così l’esperienza dell’irrompere della mancanza di chi amiamo – e che non sappiamo più come amare in modo costruttivo – toglie pian piano ai nostri giorni la vividezza dei colori, la pienezza delle forme, l’appagante fragranza di quelle scoperte che un tempo bastavano a sfinire la fame innata di conoscenza e di esperienza. Un uomo è felice di esplorare il mondo fino a quando non perde qualcuno. Dopodiché incontrerà ovunque la consapevolezza della relatività, della caducità, del potenziale venire meno di tutto ciò che potrebbe essere in grado di appassionarlo, sedurlo, conquistarlo. Così impariamo ad accontentarci e ad amare, sì, ma fino a un certo punto. Le nostre cellule immagazzinano l’esperienza della mancanza, la mente la cataloga come buco nero del sistema planetario, le braccia istintivamente si negano ai contatti per i quali sono fatte. Ci si risparmia per paura di quella esperienza che tutti conoscono e che nessuno vorrebbe riprovare con l’intensità della prima volta; e in questo modo la si replica all’infinito, soprattutto con se stessi. Abbiamo paura di amare noi stessi perché i nostri occhi si fissano sul corpo che un giorno si bloccherà, sul viso non più giovane come un tempo, sui capelli bianchi, su tutti i segni dell’assenza di qualcosa che al giudizio della mente è la sola cosa che varrebbe la pena amare: la garanzia di una presenza sempre uguale a se stessa.
Ma chiediamoci: davvero riusciremmo ad amare ciò che è sempre lì, irresistibile e impeccabile, crollasse il mondo? Un uomo sempre in forma, una donna sempre seducente, sempre attenti, affettuosi, la cui vita magari ruotasse notte e giorno intorno a noi? Riusciremmo ad amarci se fossimo sempre attraenti, giovani e brillanti? Se per gioco fosse vero, ci sentiremmo per questo in grado di dire:”voglio vivere per sempre così”? Ci basterebbe?
Magari per un anno, un mese, una settimana…o dopo solo un minuto tutta questa perfetta pienezza ci inquieterebbe? Non sarebbe un po’ come morire? E senza scomodare tanta virtuale perfezione, venendo a ciò che, splendido, è sempre lì, cascasse il mondo… quante volte ce ne accorgiamo? Quante volte cogliamo la bellezza del sole, di una quercia, del mare, del sorriso di chi pensiamo di amare incessantemente? L’esperienza della mancanza fa così male perché ci mette di fronte al poco che abbiamo sinceramente colto del mondo condiviso con chi non c’è più. È l’amore che non possiamo più dargli a fare male, a piangere di continuo di fronte a un muro freddo e vuoto. Tantissime volte è così che trattiamo noi stessi, come dei contenitori vuoti che nessuno lì fuori avrà mai la sensibilità di riempire. E allora, per ripicca, facciamo a meno dell’amore, e così impariamo a incontrare l’indifferenza. Per noi stessi, in principal modo.
Scrive Wayne W. Dyer, nel suo saggio sull’indipendenza dello spirito intitolato “Le vostre zone erronee“:
Ricorda che mai, in nessuna circostanza, odiarsi è più salutare che amarsi. Anche se hai agito in un modo che detesti, il disprezzo per te stesso non farà che immobilizzarti e danneggiarti. Impara dagli errori, decidi di non ricadervi, ma non associarli al senso del tuo valore
Il senso del tuo valore. Di che si tratta? Del vestito, del conto in banca, del ruolo, del nome, del colore degli occhi, della pelle, dell’umore del momento? Impariamo a dissociare le connotazioni alle quali la società ci induce a dare fin troppa attenzione dal valore dell’esistenza che ogni essere in vita ha. Impariamo a seguire sotto mucchi di brillanti macerie la traccia della vita…questa traccia che come l’energia elettrica anticipa e sostiene ogni filo, ogni cavo immaginabile. Questo buco nero così simile alla morte nella sua immota e ignota eternità, da cui provengono tutte le parole e i pensieri utili a formulare giudizi che mai, in nessuno caso, potrebbero spiegare o eguagliare il mistero di ciò che appare e scompare.
Sotto tutti i miei pensieri io ho in me qualcosa di oscuro, che non posso misurare razionalmente, una vita che non può essere espressa con le parole e che tuttavia è la mia vita…
(Robert Musil, “I turbamenti del giovane Törless“)
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Articolo di Margherita Cardetta per generazionebio.com
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