Per quanto affascinata da sempre dagli argomenti che sfidano il senso comune, di fronte ai libri che mi hanno avvicinata per la prima volta alla saggezza ebraica ammetto di aver incontrato non poche remore.
Da qui la curiosità di comprendere almeno in parte le ragioni di questa resistenza cognitiva e di una sensazione di disagio non tanto nei confronti delle letture affrontate quanto nei confronti di me stessa.
Perché la Kabbalah mette di fronte a se stessi senza protezioni, oserei dire senza pietà. Per ‘se stessi’ intendo quell’insieme sicuramente poco edificante eppure confortevole di pensieri, atteggiamenti, propensioni con cui viviamo e interpretiamo qualunque esperienza, anche quando ci spiazza e potrebbe condurci verso inedite soluzioni. Il nostro ego è per la Kabbalah la materia che oscura la luce, o meglio la materia che nasconde la luce: non tanto l’opposto di essa quanto un inequivocabile segno della sua presenza. Là dove c’è errore, vizio, ostacolo c’è un modo specifico per emendare, correggere, rimuovere e – nel fare questo – si rivela la luce. È esattamente l’azione tesa a correggere le innate tendenze egoistiche della personalità a produrre come un’epifania: quella luce che in altri modi sembrerebbe continuamente sfuggire a ogni umana ricerca.
Mi torna in mente la poesia di Montale a me più cara:
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
E viene da pensare agli anni in cui questa poesia fu scritta, gli anni Venti. Quasi un secolo fa. Lì, con gli orrori dei regimi totalitari a un passo dal rivelare tutta la loro radicale insensatezza; lì, un mondo racchiuso in una serie sconfinata di manuali di storia, gallerie fotografiche e testimonianze e riflessioni d’ogni tipo, tra le quali scelgo di riportare quella dell’autore di “Kabbalah pratica”, Jonathan Falcone:
Sono figlio e genero di superstiti dell’Olocausto. Come tutti i figli dei sopravvissuti, sono complessato per il fatto di essere vivo. Il destino fece uno scherzo crudele ai miei genitori. Loro sopravvissero, ma i loro genitori, nonni, fratelli e sorelle furono uccisi nelle camere a gas. Tuttavia, questi superstiti trassero in qualche modo forza e convinzione da una fonte nascosta – una fonte di vita interna. Non si infuriarono contro D-o, che fece da silenzioso testimone all’assoluto degrado dell’umanità: (…) si sposarono, ebbero figli e guardarono la società occidentale dritto negli occhi
Lì è sempre qui quando perdiamo il contatto coi confini del visibile e sprofondiamo in tutto ciò che non sappiamo, che non vogliamo e che pure siamo. Noi siamo l’ego che afferma, l’ego che deruba, l’ego che accusa, l’ego che si perde e annaspa elemosinando la luce che è alle proprie spalle. La Kabbalah ci indica l’ego con un dito di luce: non è un gesto intimidatorio, ma un gentile richiamo a seguire una direzione sicuramente ostica, ma alla portata di tutti: la direzione di quanto in noi stessi cerchiamo di eludere, negare, soffocare, la direzione del dolore e di ogni protesta muta, disperata. La Kabbalah ci sollecita a vedere nell’ostacolo che ci blocca la chiave di volta di una possibile trasformazione.(continua)
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Articolo di Margherita Cardetta per generazionebio.com
©RIPRODUZIONE RISERVATA
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