Sapere aude*
Homo sum, humani nihil a me alienum puto**
Il perdono è una forma per collegarsi profondamente con se stessi e con energie che altrimenti rimarrebbero inaccessibili*
È questa la grandissima opportunità che il perdono ci offre. Perdonare, in molti casi, è paradossale, è un atto illogico. Come facciamo a perdonare una violenza di cui non siamo materialmente mandanti e/o esecutori? Come facciamo a perdonare un atto di cui a tutti gli effetti (sensibili, razionali, giuridici, morali) siamo solo vittime o spettatori incolpevoli? Prima di cogliere l’opportunità del perdono è naturale, inevitabile cedere alla tentazione del raccapriccio, della condanna, del pensare e del dire, del fare come se non fossimo minimamente responsabili.
È facile perché agli occhi di tutti è così.
Io non ho impugnato quell’arma, io non ho ucciso, io sono una vittima come te – lo siamo tutti, poveri noi.
Ma dove ci ha mai portati questa legale tentazione di affermare, di convenire tutti che i colpevoli sono persone cui Dio permetterebbe indegnamente di esistere, di prosperare? Dove?
Da nessuna parte.
Quando una logica, per quanto rigorosa e ineccepibile, non ci porta da nessuna parte, abbiamo il compito di dimostrare di non essere delle stupide macchine; ed è proprio qui, è proprio adesso che dobbiamo affrontare la parte di noi stessi che per millenni e secoli, anni e attimi, ha collaborato inconsapevolmente o colpevolmente alla creazione di un disastro. Non voler trovare più scuse equivale a scendere ad occhi aperti nel disastro, equivale ad accettarlo come parte integrante della nostra storia comune e individuale, ed equivale a ritrovare o a scoprire per la prima volta proprio qui la preziosa leva dell’evoluzione. L’unico elemento che ci differenzia da specie non umane è la possibilità di sperimentare una nuova condotta, non per ambizione o per capriccio, ma sulla base inconfutabile del fallimento della precedente.
Siamo responsabili della vita, se accettiamo di viverla. E siamo responsabili dell’aria, dell’acqua, del fuoco, della terra e persino del sorriso dell’estraneo che storna per un attimo la nostra attenzione da un umore malinconico. Se accettiamo di vivere, siamo responsabili di tutto ciò che ci fa vivere, dunque di tutto ciò che vive. Fare i buoni, gli altruisti, i solidali…anche queste sono logiche che hanno fallito. Bisogna semplicemente cercare di essere più consapevoli dei fili invisibili che ci collegano persino al pianeta più remoto e a quello più remoto ancora che non è stato scoperto. Nulla ci è estraneo di quanto esiste, se abbiamo il coraggio di chiamarci uomini. Non sono estranee le stelle, così lontane, perché ci ascoltano quando non ci ascolta nessuno; non ci è estranea la sofferenza silenziosa di una persona che potremmo non incontrare mai, perché a vivere non ce la fa più. Se non ci riguarda tutto, allora è vero che siamo Niente. Allora è vero che meritiamo di estinguerci.
La nostra vita può avere senso solo se nel nostro pensiero ci facciamo radicalmente carico di ogni vita come se fosse la nostra, sentendo nel cuore una per una le corde dell’unica musica in grado di consolarci, di smuoverci, di riscattarci quando non sappiamo più che fare e non sappiamo più chi siamo. Non resta che comprendere che ogni corda che spezziamo o che rinneghiamo, pur con tutte le nostre sacrosante ragioni, è una ferita che ci riguarda. Se capiamo che ci riguarda, allora possiamo fare veramente qualcosa. Non come il ricco che aiuta il povero, non come il buono che tende la mano al cattivo. Non come figlio che obbedisce al padre o moglie che sopporta il marito o madre che perdona la figlia. Ma come essere umano che si accorge di avere di fronte un altro essere umano, oltre ogni ruolo atto a confonderci le idee e ad avvelenarci la percezione della “realtà”.
I ruoli, le divisioni, le classificazioni, i confini…sono un’aggiunta, sono un arbitrio della parzialità della nostra percezione e dei nostri umori, delle ferite non cauterizzate e delle decisioni mai riviste – per orgoglio, per paura, per vendetta, per interesse, per stanchezza. Tutto ciò che ci divide è una colpa non perdonata. Vale la pena perdonare non per sentirsi migliori, ma per accorgersi che vale la pena vivere meglio e che questo miglioramento del nostro stato è costantemente alla nostra portata. Basta esserne coscienti, ricordarsene più volte, specialmente quando intorno a noi qualcuno o qualcosa ci mostra la desolazione da cui tutti proveniamo e da cui tutti abbiamo il diritto di emanciparci. Molte volte ci diciamo: basterebbe che fosse fatta giustizia, basterebbe che lui o lei tornasse, basterebbe che non accadesse mai più questo e quello. Basterebbe che le cose tornassero come prima, o che fossero come vorremmo. Certo. Ma la vita non è un cerchio che deve quadrare, la vita è la forza che ci fa vivere e, per fare questo, deve a cadenze imprevedibili disarticolare i nostri piani di assestamento: non lo fa per odio o per indifferenza, ma perché questa è precisamente la sua funzione: portarci secondo i propri ritmi a cercare un equilibrio di volta in volta diverso col mondo di cui facciamo parte e che continua incessantemente a cambiare. Il perdono non è teso solo a risanare una ferita, una divisione, ma è anche inteso ad armonizzarci ai cicli inesorabili della trasformazione connaturata in ogni specie vivente.
In qualsiasi cosa, affinché si possa procedere in questo schema evolutivo, sono necessari due shock addizionali per ciclo: un primo affinché la cosa decolli e un secondo affinché possa rinnovarsi e passare all’ottava superiore. Come fare per riconoscere questi due momenti? Bisogna essere attenti, presenti in se stessi. Possiamo essere capaci di generare consapevolmente lo shock addizionale necessario all’evoluzione***
Il perdono è quindi una forma di autentico progresso: proprio perché oltrepassa lo schema prevedibile della reattività, la tentazione di rendere occhio per occhio, vendetta per sofferenza. È uno shock addizionale in quanto fornisce, in un punto critico, di forte chiusura verso la vita (che è un’incessante, inarrestabile novità), quel surplus di energia in grado di creare i presupposti per uno sviluppo che senza il nostro cosciente contributo non avverrebbe.
La vita non è solo quel che ci capita, è anche ciò che intendiamo fare di ciò che ci capita. E perdonare è un creare ex novo. Perdonando abbiamo l’occasione di fare a noi stessi il dono più grande: un nuovo inizio. Non un inizio casuale, uno fra tanti…ma proprio quello che ci siamo guadagnati, meritati, finendo consapevolmente di farci del male.
Infine mi riallaccio ai due fin troppo inflazionati motti con i quali ho voluto aprire lo spazio a queste ultime riflessioni sul valore del perdono.
Osa, abbi il coraggio di conoscere
Ovvero: abbi il coraggio di far uso della tua intelligenza.
E poi
Sono un uomo, nulla che sia umano ritengo estraneo alla mia natura
Ovvero: dal momento che sono un uomo, non c’è nulla di umano che possa non riguardarmi.
Osiamo!
Osiamo imparare dai nostri stessi errori, osiamo comprendere chi offende e uccide, osiamo cercare in noi stessi di più di un’immobile lamentela: osiamo credere nell’uomo che dorme, in noi e negli altri, e per una volta non svegliamolo con colpi di cannone, ma con una carezza. Osiamo l’impossibile, ché di possibile si muore abbastanza da una vita.
(*) Orazio, nelle Epistole, e poi Immanuel Kant, a proposito dell’Illuminismo
(**) Terenzio, ne:”Il punitore di se stesso“
(***) D. Lumera, I sette passi del perdono, Bis Edizioni, p.12, 103-104
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Articolo di Margherita Cardetta per generazionebio.com
segue da Il Perdono E’ Un’Opportunità (1/2)
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