Dalle stelle talmente lontane da collassare prima ancora che la loro luce riesca a raggiungere il nostro sguardo, all’energia che sta scomparendo nei misteriosi vortici che chiamiamo buchi neri, il cambiamento è la costante universale su cui possiamo contare
(Gregg Braden)
Se dovessi scegliere uno soltanto tra tutti i brani, radiofonici e non, che mi è capitato di ascoltare quest’estate, sceglierei uno che mi è capitato di trovare dopo una lunga attesa silenziosa, di quelle che dimentichiamo a un certo punto di portarci dentro, sedimentata tra altre attese. Quando qualcosa non “capita” semplicemente, ma capita di trovarla dopo tutto un periodo in cui se n’è avvertita la mancanza, ecco che quel qualcosa esplode dal vuoto – n a s c e – e ci ricorda il miracolo della presenza, di ogni presenza.
“I see the world” di Matteo Bassi mi ha ricordato quanto è dolce e radicale l’emergere (dal magma indistinto di tutto ciò che ci arriva e che ci è dato) di una traccia amica, di un sussurro magnetico. Non si tratta di un’emozione consolatoria, di un invito a dimenticare – per poco più di tre minuti – il caos in cui annaspiamo. Si tratta piuttosto di un’epifania. L’epifania di un nuovo ordine che trasforma l’ordinaria disperazione di cui sono fatti i nostri giorni, convulsamente o apaticamente organizzati intorno all’esigenza di restare aggrappati a una ragione debole, a una ragione per la quale è ridicolo lottare se alla fine può solo lasciarci lì dove siamo sempre stati. Questa canzone discreta e pregnante, intima e avvolgente, mi ha accompagnata nel periodo in cui leggevo “Psicomagia” di Jodorowsky, e le visioni emerse separatamente dall’ascolto e dalla lettura si sono completate, richiamate e valorizzate a vicenda:
Quello che abbiamo ricevuto è un tesoro. Non è necessario castrarci o eliminare una parte di noi. Dobbiamo fecondare e mutare ciò che ci viene dato (…). Non chiediamo al mondo di cambiarci e non lottiamo contro la società. Dobbiamo essere noi ad affermare i nostri valori(*)
And when the time will heal my head and scars
we’re gonna start all over from here
from blinded days to this scene(**)
Cosa significa annoverare il cambiamento, questo fluttuare della presenza nel vuoto, tra i propri valori? Significa accogliere e indossare il tessuto permanente della Vita e soprattutto rendersi conto che non solo ne siamo circondati, ma anche attraversati – disfatti, colpiti, rimarginati, reinventati – ad ogni respiro. Significa realizzare che ogni atto che possa dirsi artistico, creativo, UMANO, non è una descrizione innocua di ciò che è, ma un diventare ciò che si è, un diventare ciò che si sta suonando, cantando, scrivendo, dipingendo, curando, cucinando, danzando, vivendo…e ascoltando, leggendo, vedendo, sentendo, assaggiando, sognando. Allora eccoci al cospetto del paradosso a cui alludono da sempre le voci che intendono l’Universo come un inscindibile e biunivoco collegamento tra osservato e osservatore: il palcoscenico scompare, le distanze di ogni sorta nel vuoto implodono – e resta nuda, fragile e benedetta la luce che brilla negli occhi di chi amiamo e amando siamo.
Diventiamo ciò che esprimiamo, assumiamocene la responsabilità (e il diritto, la libertà).
Diventiamo ciò a cui apriamo lo spazio dei nostri sensi, della nostra mente: non diamo a tutto, passivamente, questo immenso vantaggio.
(*) Alejandro Jodorowsky, Psicomagia, Feltrinelli 2004, p.216
(**) Matteo Bassi, I see the world, 2015
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Articolo di Margherita Cardetta per generazionebio.com
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