Non riceviamo quello che chiediamo: riceviamo quello che esprimiamo. Ecco perché è così difficile prendere sul serio ciò che da più di un decennio troviamo scritto ovunque sulla legge dell’attrazione, che instancabilmente ribadisce che “simile attrae simile”, ovvero che vibrazioni analoghe si richiamano e corroborano a vicenda. Tutto ruota intorno all’equivoco generato dal significato che di default attribuiamo al verbo “chiedere”, che nell’ambito di cui qui ci occupiamo andrebbe piuttosto inteso come “esprimere”, ovvero “emettere”.
Siamo abituati a credere che per ottenere qualcosa c’è bisogno di richiederla preventivamente, attraverso una domanda o una strategia mirata. Ma la domanda che formuliamo e la strategia che mettiamo in atto si limitano a indicare verbalmente, schematicamente, l’oggetto desiderato, come un elemento separato dallo stato attuale del “richiedente” e, in questo modo, ne tradiscono precisamente la mancanza.
I nostri pensieri inviano quel segnale (sto soffrendo), e le nostre emozioni (sto soffrendo) attraggono un evento che corrisponde a quella frequenza emotiva, fornendoci, in questo caso, un buon motivo per soffrire. La vera domanda che ci poniamo è: Perché non inviamo un segnale che ci faccia ottenere un risultato positivo? Come possiamo cambiare in modo da trasmettere un segnale in armonia con il tipo di vita che vorremmo? Cambieremo quando crederemo fermamente che, attraverso il pensiero/segnale inviato, produrremo un effetto osservabile e inaspettato*
Credersi separati da ciò che si vorrebbe significa pensare, sentire, vivere in base a questa separazione alla quale si finisce per attribuire la valenza arbitraria di ostacolo insormontabile. E proprio perché è creativa la natura di ogni credenza, finiamo col generare noi stessi i muri che ci impediscono di comunicare armonicamente con l’universo. Come ci si può spostare da uno stato di mancanza/sofferenza a uno di benessere, di allineamento con l’obiettivo desiderato? Spostandosi, letteralmente, da uno stato all’altro: impersonandolo, incarnandolo.
Per scegliere una possibilità quantistica, dobbiamo diventare quel modo di essere
afferma Gregg Braden ne: “La Matrix divina”.
Sono il sentimento e l’emozione umana i fattori che influiscono sulla materia di cui è fatta la realtà – è il nostro il linguaggio interiore che cambia gli atomi, gli elettroni e i fotoni del mondo esterno. Tuttavia, questo riguarda non tanto le precise parole che pronunciamo, quanto il sentimento che esse creano dentro di noi. È il linguaggio dell’emozione che parla alle forze quantistiche dell’universo. Quando ci sentiamo come se non fossimo in grado di raggiungere i nostri sogni più belli, la matrice semplicemente ci restituisce ciò che ci siamo offerti di fronteggiare: ritardi, sfide e ostacoli**
Nulla di più elementare, nulla di più difficile da comprendere e da attuare per chi è immerso nella credenza che le condizioni materiali della propria esistenza siano estranee al proprio potere di cambiare le cose anche solo di un pensiero.
Tutti sperimentiamo continuamente la facilità con cui la mente può balzare da un pensiero all’altro e la difficoltà di sganciarla da un umore sommesso quando lo si è a lungo nutrito, rendendolo ogni istante più forte, fino a farne illusoriamente un demone che ci sovrasta. Ecco, non bisogna far altro che autoeducarsi a un utilizzo costruttivo di questa facoltà invisibile quanto potente.
Siamo capaci di creare in qualunque momento quel “simile” in grado di attrarre (come una matrice magnetica) il “simile” che vorremmo: senza chiederlo, senza elemosinarlo, senza pregarlo come se si dovesse trattare di un elargimento esterno.
Ma come? Non vedi?, non sai?, non ascolti? Sono sempre stato così, sono obiettivamente condizionato da questo e quello e quell’altro….io sono questo e non posso cambiare.
Tu sei questo? Chi lo dice?
Io.
Io chi è?
Questo.
Ma chi lo dice?
Io.
E, per affermarlo, “io” chi è? Non può essere solo quello che dice di essere, altrimenti come saprebbe di esserlo? Come potrebbe oggettivarlo come se fosse un altro individuo da sé? Come potrebbe dire “io” sono “questo” e non “io” sono “io”? Quando introduciamo una separazione tra noi e noi stessi, definendoci in qualunque modo, incontriamo la prova incontrovertibile che in realtà potremmo essere altro da ciò che siamo convinti di essere e che il campo di riferimento del pronome “io” è sconfinato, vertiginosamente sconfinato.
“Io” sono “questo qui”, ma sono anche ciò che ancora non conosco di me. Va a finire che “io” sono soprattutto il potenziale implicito e inespresso di ciò che mi fa essere.
Ed eccoci nel cuore dell’universo quantistico, eccoci alla provocazione mirabilmente esemplificata dal Vangelo e dalla trovata astuta con cui Ulisse, dopo averlo accecato, riesce a scampare alla vendetta di Polifemo: diventare come bambini per entrare nel regno dei cieli e chiamarsi “Nessuno” per riconquistare la libertà dalle conseguenze nefaste a cui l’essere Ulisse avrebbe condannato il protagonista dell’Odissea. I bambini sono maestri della trasformazione continua dell’io, e Ulisse è per antonomasia l’uomo proteiforme, l’eroe dai mille volti, espedienti, stratagemmi. Ecco qual è il metodo per comunicare costruttivamente con l’universo: diventare ciò che si deve diventare per poter ottenere ciò che si vuole, passando prima attraverso la neutralizzazione dell’attuale identità. Se io desidero stare meno male, devo fare qualcosa dentro di me, devo emettere precisamente il segnale a cui l’universo risponderà nel modo che desidero, devo creare una sorta di matrice energetica che attiri a me il cambiamento che voglio. Devo sfruttare la libertà che da essere cosciente e autocritico ho di cambiare me stesso. Devo cambiare io, per prima cosa. Se voglio stare meglio devo iniziare a non nutrire più neanche il minimo pensiero di malessere, devo tagliare i rifornimenti che io stesso ho finora garantito al “nemico”.
Non è un’idea semplice da integrare nel nostro sistema di orientamento razionale, e tanto meno si tratta di un’idea semplice da attuare. È una stella polare, piuttosto, a cui tendere, a cui aprirsi poco per volta, con pazienza e soprattutto con desiderio. È un viaggio in noi stessi, un viaggio che se apriamo bene i nostri sensi scopriamo avere numerosi partecipanti, mentori, leader…in particolare gli artisti. Scultori, pittori, musicisti, cantanti, danzatori…tutti coloro che amano della propria arte esattamente la possibilità che dà di esperire e di condividere l’emissione di un segnale trasgressivo, che inviti a pensare a qualcosa di diverso. A essere qualcosa di diverso. A essere ciò che abbiamo sempre cercato dappertutto meno che in noi stessi.
*Joe Dispenza, Cambia l’abitudine di essere te stesso, MyLife 2012
** Gregg Braden, La Matrix divina. Un ponte tra tempo, spazio, miracoli e credenze, Macroedizioni 2007
segue da Liberi di Cambiare (1/1)
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Articolo di Margherita Cardetta per generazionebio.com
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