Lo scorso 6 giugno si è svolta a Berlino la finale di Champions League tra Juventus e Barcellona, finale persa dai bianconeri, che però ha lasciato in bocca a molti loro sostenitori un gusto di soddisfazione e di orgoglio, un sentore di gratificazione nell’aria già dal momento in cui la squadra guidata da Allegri ha centrato il passaggio all’ultimo atto, prevalendo nei due match della semifinale col Real Madrid.
Il calcio abitua, col tempo, a entusiasmi e a cocenti delusioni, al punto che si arriva facilmente a perdersi in una dinamica di alti e bassi in cui ogni sensazione viene consumata in fretta, con un senso di fatalistico diniego. Per questo la sconfitta rimediata a Berlino ha un sapore speciale: non è frequente sentirsi grati SOLO per aver avuto l’occasione di dimostrare (ancor di più) il proprio valore, non è comune sentirsi grati a prescindere dal risultato. Mi piace pensare che la reazione diffusa tra il popolo bianconero a quella che comunque è stata la sesta finale di Champions persa nella storia del club sia il segnale di un modo diverso di guardare alla sconfitta, che alleggerisce quest’ultima dell’etichetta di fallimento che troppo spesso siamo portati ad attribuirle.
Nove anni fa la Juventus giocava in serie B e solo nell’arco delle ultime quattro stagioni è riuscita a riguadagnare posizioni di rilievo nell’ambito calcistico nazionale. Il valore della sconfitta di Berlino va misurato in questa ottica, alla luce della consapevolezza di un’attesa lunga quasi un decennio. Un’attesa che per molte annate ha lasciato presagire un riscatto lontano, complicato. Un’attesa silenziosa, sfiancante, puntellata da tante partite, da tanti gironi mediocri, penosamente trascinati fra abbozzi di gioco e motivazioni labili, incerti. Vale la pena ricordarsi di quelle partite, di quelle numerose giornate all’apparenza così sconclusionate, deprimenti, inutili, vale la pena ricordarsene perché sono esperienze così ad allenarci, alla lunga, a riconoscere le occasioni che poi la vita ci offre per cambiare il corso degli eventi; a riconoscerle e a onorarle….onorarle come andrebbe onorato l’incontro con ogni persona, un momento unico e irripetibile, al di là del rapporto che potrà instaurarsi tra di noi.
Attendere e onorare ciò che durante l’attesa ci tocca scoprire, e spesso sopportare, è l’atteggiamento che ci permette di stagliare l’osservazione del momento che viviamo in un orizzonte più vasto. Così la sconfitta, e con essa tutta quella indistinta pletora di giornate incolori di cui ognuno di noi fa esperienza più volte nella vita, mille miglia distanti dal sogno che vorremmo INVECE poter vivere, non è che una fase di passaggio, che ci lascia in eredità esattamente ciò che ancora ci manca per continuare il viaggio verso la vittoria. È nell’attesa che impariamo a vincere, perché l’attesa è solo superficialmente mancanza, vuoto, evidenza dell’assenza di ciò che si attende: in realtà è la forma stessa del nostro desiderio, la consistenza del suo spessore, la misura del cambiamento di noi stessi che siamo disposti ad affrontare e sul quale siamo pronti a scommettere.
È dalle prime pagine del Vecchio Testamento, dal libro dell’Esodo, che proviene la testimonianza più audace del valore dell’attesa. Mosè sta guidando il popolo ebraico verso la Terra Promessa, i mesi trascorrono lenti, impietosi, in un deserto infinito tra la prigionia e la libertà. In quel deserto, che è soprattutto psicologico, si fa strada a più riprese prepotente, irresistibile, il desiderio di tornare indietro, a uno stato di dipendenza, di idolatria, di schiavitù. L’attesa è preziosa anche per questo: ci insegna il prezzo della libertà. Nessuno ci costringe a vincere, a cambiare, a migliorare: lo dobbiamo unicamente a noi stessi, al valore che siamo disposti a riconoscere all’esistenza in generale e, nello specifico, alla nostra. È il modo in cui scegliamo di impiegare l’attesa che dà senso a tutto ciò che siamo sul punto di trovare.
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Articolo di Margherita Cardetta per generazionebio.com
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