Io parlo, parlo,
dice Marco,
ma chi mi ascolta ritiene solo le parole che aspetta. Altra è la descrizione del mondo cui tu presti benigno orecchio, altra quella che farà il giro dei capannelli di scaricatori e gondolieri sulle fondamenta di casa mia il giorno del mio ritorno, altra ancora quella che potrei dettare in tarda età, se venissi fatto prigioniero da pirati genovesi e messo in ceppi nella stessa cella con uno scrivano di romanzi d’avventura. Chi comanda al racconto non è la voce: è l’orecchio*
Il mese scorso si parlava di fili invisibili, a proposito de:”Il piccolo principe“, di quei sottili e talvolta indistruttibili legami che si creano con lo scopo di unire realtà tra loro separate dallo spazio e dal tempo, e di come essi siano importanti nella tessitura di un valore così rarefatto e prezioso come l’amicizia, che implica proprio la fedeltà verso qualcosa che non si può toccare e quindi possedere, assicurare come un qualunque bene materiale. Amicizia, dicevamo, come ardito e spontaneo patto che si istituisce nel momento stesso in cui due persone si prendono cura dei capi di uno stesso filo. L’immagine del filo è poliedrica, richiama anche altri significati che potrebbero rafforzare e contraddire questo concetto positivo di connessione. Il filo rende l’idea della continuità tra elementi isolati, ma può anche suggerire quella di una corda (figura etimologicamente legata a quella del cuore, alla dimensione affettiva dei rapporti interpersonali), di una corda vocale e di uno strumento musicale, per esempio, e può alludere anche a un vincolo che limita la libertà personale. Allo stesso modo, l’immagine della corda può far pensare all’emissione di un suono come al venire a capo di una decisione comune: sono queste le due accezioni correnti del verbo “accordare/accordarsi”. Immagini molto simili tra loro per indicare la creazione di un effetto armonico sul piano musicale così come su quello familiare, amicale, sociale, politico, etico. Gli accordi: note distinte che sovrapposte dànno vita a un suono omogeneo, ma anche patti a cui si decide di attenersi. A cambiare, tra un’accezione, una sfumatura di significato e l’altra di un verbo, di un sostantivo… talvolta può essere tutto. Nell’ambito musicale la personalità può solo limitarsi a creare legami tra suoni già esistenti, ognuno con la propria schietta altezza. Si possono creare capolavori universalmente riconoscibili come plagi e oltraggi, ma ogni nota, ogni suono, ogni elemento è sempre stato e sempre sarà inalterabile, incorruttibile.
Lo stesso non si può dire della sfera che pertiene all’umano propriamente detto, quella in cui prendono corpo patti/accordi che nulla toglie possano essere sublimi e che nulla impedisce possano essere lesivi del valore che accordiamo alla parola “dignità”. Nell’umano la parola è sovrana, una sovrana estremamente strumentalizzabile. Qui ogni elemento costitutivo si fa perfettamente malleabile e gli accordi sono quanto di più ambiguo possa essere presentito, propinato, sofferto. Recentemente mi sono imbattuta in un libro di Don Miguel Ruiz che circoscrive la zona oscura che avvolge l’uso improprio della parola che spesso facciamo per ignoranza, pigrizia, leggerezza.
Sii impeccabile con la parola (…). Attraverso la parola si esprime il potere creativo, non è soltanto un suono, o un simbolo scritto: è il più potente strumento a disposizione degli esseri umani. La parola è un seme e la mente è così fertile. Un timore o un dubbio piantato nella mente possono creare un’infinita catena di eventi negativi. Attraverso le nostre opinioni lanciamo continuamente sortilegi**
Ci sono autori che hanno conosciuto il mondo con l’acume dei più grandi compositori e che hanno saputo tradurre in parole una travolgente gamma di emozioni, talmente intime alla natura umana da apparirle infinitamente misteriose. Prendiamo Shakespeare, e di Shakespeare una delle tragedie più famose, “Otello“: Otello si macchierà materialmente dell’omicidio della sua amatissima moglie Desdemona perché deciderà di accordare la propria volontà alla tendenziosa versione che Iago insinua al suo orecchio, nella sua mente, circa la relazione tra la donna e il luogotenente di lui, Cassio. Appena prima che il tarlo del sospetto inizi ad alterare il suo discernimento, Shakespeare fa dire a Otello:
Dubitare una sola volta, equivale ad aver deciso***
Dubitare non è il temporaneo parcheggiarsi in una zona neutrale del proprio spirito, nella quale addirittura si possa essere in grado di scegliere la condotta più appropriata da assumere rispetto a un determinato evento: dubitare è niente meno che rompere irreversibilmente un accordo, aver già scelto di non sostenerne più l’esistenza. Dubitare è accorgersi retroattivamente dell’invisibile bellezza che avvolge tutte le certezze che i nostri sensi non basteranno mai a dimostrare e a costruire, una bellezza che può solo essere profanata: altro modo per intuirla, qui dove tutto si affida alle parole, non c’è. La parola confonde, diffonde, profonde in mille interpretazioni in grado di autofondarsi. A parole chiede sempre il permesso all’orecchio, per potergli poi attribuire la responsabilità dell’interpretazione. La musica invece non chiede il permesso. Irrompe tra le crepe delle parole come un pianto liberatorio, lo fa e basta. È il ricordo sempre attuale di quando le parole erano segni indecifrabili sul foglio, suoni leggeri, e l’unico modo per onorare la presenza di qualcuno, o di qualcosa, era corrervi incontro con tutte le cellule e non accontentarsi, quando ancora non sapevi di corpi che si ignorano comprimendosi, che si amano confinandosi, di pienezze incrinabili. Impariamo dalla musica a ricordarci di essere, senza diventare puntualmente qualcosa che non siamo, impariamo a sbavare come l’inchiostro quando incontra l’acqua e allontana le parole facendole diventare fortuitamente un che di indistinto eppure illuminante. Impariamo dalla musica a trasmutare i temi, le forme, a sciogliere i nodi e a creare nuovi accordi. Impariamo a rispettare la dignità di chi è senza padroni e testimoni, di chi non ha e non pone vincoli e nulla promette più di ciò che ha sempre permesso: non una fuga, un intermezzo, non la pratica autoconsolatoria di una ricercata distrazione, ma l’esperienza di ciò che resta quando tutto scompare, quando tutti i lustri accordi del nostro sopravvivere in comune diventano esattamente lo sfondo che rende ancora possibile, per contrasto, per tradimento, l’intuizione della bellezza.
Italo Calvino, Le città invisibili
** Don Miguel Ruiz, I quattro accordi
*** Shakespeare, Otello, atto III, scena III
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Articolo di Margherita Cardetta per generazionebio.com
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