“Il Piccolo Principe” è uno di quei libri che varrebbe la pena leggere almeno due volte: la prima dall’inizio alla fine, la seconda a ritroso. Perché solo partendo dalle ultime parole e dall’ultima, scarna immagine tracciata dalla matita dell’autore si può comprendere la forza espressiva dei primi capitoli, sospesi tra domande, schizzi e scambi di battute surreali. Surreali non perché non rivelino già da subito la loro pregnanza, ma perché sfuggono completamente alla trama dei confronti interpersonali cui siamo abituati, più o meno tutti.
Partiamo, dunque, dalla fine. Due archi in basso suggeriscono l’incontro prospettico in lontananza di due dune nel deserto, desolazione di un paesaggio sormontato da una stella. Quella stella è l’asteroide B612, il minuscolo pianeta al quale ha appena fatto ritorno il piccolo bizzarro protagonista di questo racconto. Antoine de Saint-Exupéry invita il lettore a guardare attentamente questo paesaggio per poterlo ricordare e riconoscere un giorno, in un eventuale viaggio in Africa: il piccolo principe potrebbe tornare, e allora lui, l’autore, sarebbe felice di saperlo. Un finale che potrebbe far sorridere bonariamente, da adulti scafati quali siamo un po’ tutti abituati ad essere, dall’alto delle cose serie nelle quali siamo affaccendati e dalle quali siamo continuamente risucchiati e fuorviati.
Un finale che ci sfugge nella sua enigmatica bellezza se non accettiamo la provocazione di Saint-Exupéry, se non prendiamo sul serio ciò che sembra essere solo un gioco, una fantasia, un espediente letterario come tanti. Questo, invece, è un racconto programmaticamente volto a insinuare in noi lettori il sospetto del valore che potrebbe avere il ribaltamento dello schema dualistico tramite il quale interpretiamo per inerzia la realtà: serietà/gioco, visibile/invisibile. È serio ciò che possiamo vedere, ascoltare, toccare, odorare, gustare, constatare con ragionevole sicurezza…giusto? È invece opinabile (continuamente esposto al rovello del dubbio) ogni gioco, perché ogni gioco si fonda sulla presunta solidità di presupposti che chiunque potrebbe dichiarare arbitrari, relativi, e che risulterebbero “visibili” solo agli occhi di chi accettasse di giocare con noi.
Il gioco, così come la fantasia dei “piccoli”, è in realtà un insospettabile modo per tastare il polso dei “grandi” e degli “estranei”, per metterli alla prova, per intuire di chi ci si può fidare e di chi no. Ogni gioco è un po’ un piano di evasione dalla solitudine, dal deperimento della qualità dei rapporti ordinari (quelli in cui, pur visibili, non ci si vede più), ed è anche un’arte: l’arte di creare fili invisibili tra punti dislocati nello spazio che agli occhi di chiunque fra di loro non avrebbero alcun legame. Questo è il gioco sul quale si regge e si erge il valore dell’amicizia. Un valore completamente sospeso nel vuoto. Perché gratuito, fine (davvero soltanto) a se stesso. L’autore dunque nell’ultima pagina ci sfida a giocare con e come lui.
Ed è a questo punto che possiamo iniziare a leggere questa storia senza correre il rischio di crederla soltanto una bella favola. Si inizia a leggerla tenendo presente quel punto finale, un punto imprecisato tra il deserto e una stella.
Ebbi un incidente col mio aeroplano, nel deserto del Sahara. Qualche cosa si era rotta nel motore e mi accinsi a riparare il guasto. Ero più isolato di un marinaio abbandonato in mezzo all’oceano, su una zattera, dopo un naufragio. Potete immaginare il mio stupore di essere svegliato all’alba da una strana vocetta:”Mi disegni, per favore, una pecora?” – “Cosa?” – “Disegnami una pecora”. Balzai in piedi come se fossi stato colpito da un fulmine. Quando un mistero è troppo stupefacente, non si osa disobbedire
I disegni presenti nel libro rispondono tutti all’intento sottile che regge l’intera trama, svelato en passant verso la fine del quarto capitolo:
C’era una volta un piccolo principe che viveva su di un pianeta poco più grande di lui e aveva bisogno di un amico (…) e io cerco di descriverlo per non dimenticarlo
“Il piccolo principe” è stato scritto col proposito di rendere visibile l’invisibile. È il motivo per cui il protagonista chiede all’autore di fargli un disegno dopo l’altro: una pecora, dei baobab, una rosa, una volpe… per farli esistere lassù e qui intorno, da qualche parte, ovvero nella mente di chiunque veda, legga, immagini. Così l’amicizia, se non esiste con i suoi riti istituenti e le sue perle miliari nella consapevolezza delle persone che lega tra loro come capi dello stesso filo, non può esistere in nessun luogo.
“Sì”, dissi al piccolo principe, “che si tratti di una casa, delle stelle o del deserto, quello che fa la loro bellezza è invisibile” (…). E siccome le sue labbra semiaperte abbozzavano un mezzo sorriso mi dissi ancora:”Ecco ciò che mi commuove di più in questo piccolo principe addormentato: è la sua fedeltà a un fiore, è l’immagine di una rosa che risplende in lui come la fiamma di una lampada, anche quando dorme…”
La fedeltà a qualcosa che non si vede, che non si tocca, che non si può possedere, né chiudere in cassaforte; la fedeltà a qualcosa che si può solo ‘sentire’ e scegliere di far esistere nel regno dei valori immateriali condivisi. L’amicizia è questa ardita e spontanea fedeltà, un patto che si stipula nel momento in cui si prendono in mano i capi del filo e si comprende che è esclusivamente nostra responsabilità tenere tesa e vibrante quella nuova corda della nostra anima. Arrivati di nuovo all’ultima pagina, tra il deserto e la stella, i nostri occhi saranno liberi di vedere solo ciò che il cuore sarà stato in grado di riconoscere e di custodire: la certezza della naturalezza o dell’assurdità di una simile impresa. E a seconda della piega che questa consapevolezza prenderà, parleremo di favola o di storia vera, di invenzione o di sublime messaggio per viaggiatori solitari, con in tasca un foglio, una matita e un filo…
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Articolo di Margherita Cardetta per generazionebio.com
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