Quella volta in cui siamo stati fraintesi, quella volta in cui non eravamo previsti o attesi, quella volta in cui il tutto che avevamo tra le mani era una cosa di cui gli altri potevano fare tranquillamente a meno. Non cerchiamo solo l’inesplorato oltre ciò che conosciamo e si conosce di noi: vogliamo qualcuno che lo riconosca insieme a noi e attraverso di esso ci veda, come per la prima volta, la prima volta davvero; qualcuno che ci attesti nel proprio comprensivo e amorevole sguardo quando saremo ai confini del mondo. Dalla felicità ci separa sempre un pezzo. Il pezzo mancante: un pezzo che da solo domina la scena.
Così Edward, la disarmata creatura incompleta di Tim Burton, interpretata da Johnny Depp, viene esaustivamente connotato attraverso il suo pezzo mancante: le mani al posto delle quali saettano sotto gli occhi spaventati ed esaltati di tutti delle protesi taglienti. E scopriamo spesso con sbigottimento che il Frankenstein partorito dalla mente di Mary Shelley non è che l’inventore del mostro universalmente noto come icona di aberrazione, di diversità perturbante – e non il mostro stesso. Due identità la cui storia si sviluppa a partire da una mancanza rispettivamente strutturale e nominale, emblematica di una carenza di senso che si consuma in un’odissea verso l’altro.
All’altro spetta il pezzo mancante di ogni storia, sempre. Se a priori non avessimo nessun pezzo mancante da cercare con tutta l’anima, allora cantare, recitare, scrivere, ballare, dipingere, partire, tornare, innamorarsi… avrebbero mai quel senso che, intuito, ci fa vibrare nella nostra interezza (interezza che in nessun altro modo può darsi a intendere)? Quando raccontiamo, cantiamo, scriviamo, ci rapportiamo all’infinito dei suoni, dei colori, dei movimenti, delle carezze e delle attese, è il nostro istinto di sopravvivenza che entra in gioco, e non è più quello di preservarci biologicamente come specie drammaticamente predisposta all’infelicità: ma quello di tendere a quel pezzo mancante, in mano a chi non sappiamo, a chi non conosciamo, a chi temiamo, a chi indoviniamo dietro ogni congiunzione astrale.
A volte il pezzo mancante è il rovescio di ciò di cui siamo inconsapevoli di mancare, il punto cieco di una vita regolare e prevedibile. È in un mondo siffatto che Burton fa agire come un detonatore lo sguardo di Edward, sperduto tra le lame, e la sua adesione fiduciosa e letterale a persone, cani e cose. Così ad entrare in corto circuito sono due pezzi mancanti: la curiosità morbosamente superficiale di ospiti e vicini nei suoi riguardi e il desiderio che Edward matura di essere da loro accolto e amato. A mancare, nel sobborgo residenziale che fa da sfondo al forzato inurbamento di Edward, è, come ha sottolineato lo stesso Burton, una relazione forte con le cose:
Sono cresciuto in un quartiere di periferia, anche se tuttora non posso dire di averlo capito fino in fondo. C’è qualche pezzo mancante, qualcosa di vago. E questo l’ho sentito nettamente nella mia famiglia. Prendi i quadri che avevamo alle pareti. Non credo che a nessuno dei miei genitori piacessero particolarmente. E non credo li avessero comprati o che qualcuno glieli avesse regalati. Era un po’ come se fossero stati lì da sempre. Eppure nessuno li guardava mai*
Edward viene fagocitato da questo mondo in virtù e in forza delle mani in luogo delle quali si ritrova delle bizzarre forbici: la sua fortuna, la sua condanna; e in mezzo l’afflizione muta e irrelata dell’unità animica che non può esprimersi in un abbraccio senza correre il rischio di ferire chi ama. È condannato ad un amare intransitivo, a delegare a siepi e statue di ghiaccio il dono del suo pezzo mancante a una comunità che solo nella più di tutti amata Kim infine realizzerà il prezzo dello iato che si produce sempre tra immagine e percezione:
Fin dal primo giorno, rientri in qualche categoria. Questa è stata la spinta più forte nel fare il film (…). È una cosa triste e insieme frustrante, perché c’è qualcuno che ti sta dicendo che cosa sei, e questa cosa non sei tu**
L’agglomerato di membra antropomorfe al quale Viktor Frankenstein dà inopinatamente vita avrebbe dovuto essere un altro risolutivo pezzo mancante, come ciascuna delle creazioni cui Edward dà forma con le sue lame affilate, ma nel momento stesso in cui si è materializzato si è separato irreversibilmente dalla sua origine, tradendola e tradendosi, riducendola al silenzio e al disprezzo di sé. Eppure le sculture di Edward erano così belle, così come le intenzioni del mostro che per Viktor non merita neanche un nome:
Oh, Frankenstein, non essere equo con tutti mentre calpesti me solo, a cui maggiormente devi non solo giustizia, ma anche clemenza e affetto. Sono una tua creatura, ricordalo: dovrei essere il tuo Adamo, e sono invece l’angelo caduto che tu hai allontanato dalla gioia senza colpa alcuna da parte sua. Dappertutto vedo beatitudine dalla quale io sono irrevocabilmente escluso. Ero buono e benevolo: l’infelicità ha fatto di me un demone. Rendimi felice, e sarò di nuovo virtuoso**
Ciò che cercano, Edward e il figlio ripudiato di Viktor, è la stessa cosa: la pienezza di un riconoscimento che si può realizzare solo mettendo insieme tutti i pezzi della maschera, perché solo allora essa può implodere nell’accoglienza, nella reciprocità, nella grazia di un gioco alla pari dove in palio c’è la consapevolezza che insieme ci bastiamo. Una relazione non può ambire ad altro che a una completezza ogni volta provvisoria, non perché sia mancante per principio di qualcosa che non potrà mai acquisire, ma perché siamo vivi e nella continua ricerca del nostro pezzo mancante rischiamo e onoriamo la qualità del nostro tempo. Anche a proposito di Jack Skeletron la volta scorsa abbiamo visto quanto sia pregnante la figura dell’angelo nell’immaginario burtoniano: Edward scolpisce l’angelo che idealmente accoglierà tra le sue braccia la temporanea caduta di Jack dal suo sogno di autorealizzazione condivisa. Esiste forse un sogno più grande, pungente, invincibile di questo? Che mi vedano e che mi amino per quello che sono, per quello che sono in grado di dare, attraverso e oltre ogni mia creazione, ogni mio errore.
È lo stesso sogno che ascoltiamo con Viktor Frankenstein dalla voce di una creatura della fantasia, tra le più realistiche e integre di sempre:
Amo questi cieli cupi, perché sono più buoni con me dei tuoi simili. Se sapesse della mia esistenza, l’umanità farebbe come te, si armerebbe per uccidermi. Non dovrei dunque odiare chi mi detesta? (…) Ascolta la mia storia, e solo dopo abbandonami o compiangimi, come ti sembrerà giusto. Ma ascoltami**
* Tim Burton, Burton racconta Burton, Feltrinelli
** Mary Shelley, Frankenstein, Einaudi
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Articolo di Margherita Cardetta per generazionebio.com
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