Siamo figli dei nostri genitori. Siamo figli dei nostri tempi. Siamo figli del mondo che abbiamo trovato. Soprattutto, siamo figli dei nostri sogni, di quel misto peculiare di incubi e speranze, del peggio e del meglio che la nostra fantasia possa ritrovarsi a concepire.
Questo è il primo di tre appuntamenti nel segno del valore della fantasia e, nello specifico, con alcuni personaggi creati da un uomo che risponde al nome di Tim Burton e che, prima di essere un regista tra i più visionari in circolazione, è un demiurgo e veicolatore di stati d’animo, di suggestioni volutamente fuori dal comune.
La fantasia è il regno degli estremi, di quegli estremi che non si incontrano sui binari della comunicazione ordinaria, in ogni attimo sorvegliata dal senso della misura, della relatività, dal pudore quando non dall’ipocrisia sociali. Nel mondo nei confronti del quale siamo più abili a rapportarci, una fata sarebbe costretta a nascondere la sua bacchetta magica per non turbare il senso di tranquilla omologazione che tutti conveniamo nel chiamare realtà, la grigia e rassicurante realtà: acqua cheta, distillata, depurata di tutti quegli elementi che farebbero di un uomo e di una donna “medi” qualcosa di conclamatamente, legittimamente unico.
L’unico, l’eccezionale, è ghettizzato nella fantasia, completamente delegato ad essa, al di là del confine che abitualmente immaginiamo sussistere granitico e invalicabile a difesa della consistenza delle nostre mature convinzioni. Che anche questa sia una fantasia sarebbe pericoloso riconoscerlo: del resto, chi ha fantasia, al di qua del confine che ammettiamo esista, non viene più o meno bonariamente additato come eterno bambino, illuso, disadattato? Come se i sedicenti adulti non fossero a loro volta bambini che hanno scelto di fingere di non avere più bisogno di incantesimi, di sorprese, di emozioni piene, e che al massimo sono disposti a concedersi solo per la durata di un film l’illusione di un mondo vivo e complice in cui un essere speciale riesca con la propria irriducibile diversità a cambiare il corso degli eventi migliorando se stesso. Solo per la durata di un film, di un breve film d’animazione come “Nightmare before Christmas“, per esempio. La storia di Jack Skeletron, ideata da Burton, girata da Henry Selick, con musiche di Danny Elfman.
Un’alchimia di talenti, di specifiche diversità a favore di un intreccio visivo e sonoro che è un breve e intenso viaggio attraverso le emozioni che da sempre e dappertutto, anche qui, nel mondo ‘reale’, accompagnano l’individuo insoddisfatto dello stato attuale della propria esistenza che si mette alla ricerca di qualcosa che non sa ancora definire. L’insopprimibile insoddisfazione ben raccontata in uno dei brani iniziali della colonna sonora: “Ma lontano da quel mondo che ho c’è un sogno che spiegarti non so”. Jack, già personalità eminente della città di Halloween, si avventura oltre il confine che delimita il suo abituale raggio d’azione e si imbatte nella città, nel mistero del Natale, nei mille aspetti che ne compongono la palpabile e ineffabile magia. I suoi momenti riflessivi si sviluppano nell’arco delle successive canzoni: “(Eppure deve esserci una maniera logica per spiegare questa cosa del Natale) Non sforzarti di capirlo….devi solo immaginarlo! In un istante, in un momento…cosa vuol dire, cosa vuol dire?! Il cranio scoppia ma non capirò. La risposta è tutta qui, misteriosa e semplice (invisible, but everywhere)”.
Jack crede di aver capito: non deve far altro che ricostruire nella città di Halloween ciò che ha visto nella città del Natale: regali, simboli, vestiti, colori. E così arriveranno per magia anche i sorrisi, l’allegria, la gioia che ha visto trionfare ‘oltre il confine’. Lui stesso intende prendere il posto di “Babbo Nachele”, abdicando al ruolo di re delle zucche. Armato delle migliori intenzioni, la notte di Natale si avventura intrepido sulla slitta, sfidando un cielo minaccioso, alla conquista dell’altro mondo. Ma qui nessuno comprende la bontà del suo progetto: i regali si rivelano trucchi spaventosi, i bimbi piangono, gli adulti fanno intervenire la polizia e la polizia gli spara addosso mentre, al culmine della sua trionfante ingenuità, lui prende gli spari per festanti fuochi d’artificio: di ringraziamento! Infine, colpito ma non affondato, cade tra le braccia di una statua raffigurante un angelo che tanto ricorda quello che nel primo grande successo di Burton, “Edward mani di forbice“, il protagonista forgia intagliando un blocco di ghiaccio. Immagine trasversale, molto suggestiva, chiamata emblematicamente in causa nei passaggi cruciali di entrambi i film, in cui viene tematizzata (con esiti diversi) la difficoltà di esprimere la propria natura, la propria ansia di vita nell’orizzonte di attesa, di comprensione, della comunità alla quale ci si rivolge. Tra le braccia dell’angelo silenzioso che raccoglie e custodisce il mucchietto d’ossa a cui è ridotto, Jack realizza di aver sbagliato ad appropriarsi di un’attitudine esteriore di cui ancora non aveva maturato il calco originale (l’autentica gioia del cuore che il Natale ci ricorda essere “invisibile, ma ovunque”), e rinasce dalle proprie ceneri. Non perde tempo, si rialza e lancia un’altra sfida, questa volta al cattivone di turno, Mr. Bau Bau che, in separata sede, sta amabilmente seviziando Sally, l’amica di sempre, e quel Babbo Nachele che aveva fatto rapire per prenderne il posto. Si riappropria della sua ideale tavola da surf e va incontro alla corrente che in breve lo riporterà sulla cresta dell’onda, ovvero della sua collina a forma di ricciolo.
Vale la pena tornare, a questo punto, a un libro di cui avevamo in parte parlato la volta scorsa, “Lo spazio delle varianti”. Dopo aver descritto l’azione assoggettante dei pendoli energetici, Vadim Zeland parla di potenziali superflui, tra i quali annovera la vanagloria come il senso di colpa:
il potenziale superfluo sorge lì dove c’è tensione ma non c’è movimento di energia*
Il potenziale superfluo creerebbe uno scompenso nel contesto energetico circostante e causerebbe il “vento delle forze equilibratrici” tese indifferentemente, al di là del bene e del male, a ripristinare la fluida coesistenza delle forze in gioco, spesso in maniere che definiremmo ingiuste. Il buon “transurfer” dovrebbe calibrare le proprie intenzioni e iniziative, le proprie reazioni e i propri stati d’animo prevalenti, tenendo presenti tali dinamiche.
Vediamo punita, nel caso di Jack, l’ambizione di padroneggiare un repertorio non proprio con la reazione violenta degli abitanti della città del Natale, ma vediamo anche premiata la prontezza con cui riesce a gestire costruttivamente il proprio senso di colpa e a capovolgere di fatto gli eventi. Viene punito, ma non oltre il necessario. Nel modello del Transurfing, così come nella mente di Jack, non c’è posto per la violenza su se stessi. E Jack si rivela un transurfer perfetto, un calzante esempio della personalità proattiva delineata da Zeland nei suoi libri. Una personalità in grado di preservare la propria dignità nell’osare come nello sbagliare. Una personalità che non resta in ostaggio di una realtà con cui non riesce più a dialogare, che rompe gli schemi, salda i conti, paga il prezzo dei propri sogni, e che proprio per questo non permette al senso di colpa di carpirle risorse utili a un pronto riscatto.
Se proprio esiste una colpa, si potrà subire una punizione, ma non si dovrà restare colpevoli*
*Vadim Zeland, “Lo spazio delle varianti“
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Articolo di Margherita Cardetta per generazionebio.com
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