L’epidemia di Covid-19 ha riportato alla ribalta l’idrossiclorochina, che ha dimostrato insieme ad altri farmaci di fare la differenza nel trattamento dei primi sintomi dell’infezione, prevenendo quell’aggravamento che ha causato, a livello mondiale, la crisi sanitaria più grave di sempre.
L’idrossiclorochina è uno dei farmaci più utilizzati nelle problematiche di natura reumatologica.
Ha una versatilità attestata, che lo rende efficace nel trattamento del lupus, della coagulopatia autoimmune, dell’artrite reumatoide e dell’artropatia infiammatoria di basso livello.
La gamma di indicazioni è vasta, così come l’azione molteplice.
L’idrossiclorochina fu scoperta in Occidente nel 1638, grazie alla contessa peruviana Francisca Enriquez de Rivera, seconda moglie del IV conte di Chinchon. La donna, mentre viveva nel Nuovo Mondo, si ammalò di malaria e, anziché sottoporsi al classico salasso, fu trattata da un curatore Inca, che le somministrò la corteccia di un albero (il quale, in onore della contessa, fu poi denominato Albero di Cinchona).
La risposta fu positiva e immediata!
Tanto che il marito, il conte Luis Jeronimo Fernandez de Cabrera y Bobadilla, quando rientrò in Spagna portò con sé enormi quantità di questa polvere che, essendo controllata dalla Chiesa, prese il nome di “polvere dei gesuiti”. I quali, la distribuirono gratuitamente a tutti i malati di malaria.
Il potere medicamentoso di questa corteccia pare fosse stato originariamente scoperto da un Indio peruviano che, colpito da malaria, si dissetò bevendo l’acqua di uno stagno dove erano caduti alcuni alberi di china.
Un’altra versione riguardo il suo arrivo in Europa narra che il segreto di questo potente rimedio venne tramandato da un soldato spagnolo, guarito anch’egli dagli indigeni grazie a questa pianta officinale che, da quel momento in poi, fu chiamato anche Arbol de la Calentura, albero della febbre.
Qualunque sia la versione più attendibile, ciò che conta è che, dopo due secoli, il principio attivo, il chinino (noto ancora oggi per le sue proprietà antipiretiche, antimalariche e analgesiche), venne isolato dalla corteccia, per poi diventare nel tempo un componente comune nei rimedi popolari e in quelli brevettati per il trattamento della malaria negli stati del Sud America, nonché per i malesseri in generale.
C’è stato un periodo in cui in Italia il chinino veniva distribuito in tabaccheria, a prezzi popolari. Le confezioni di chinino dello stato sono rimaste in commercio fino agli anni ’60 ed erano prodotte presso il Laboratorio Chinino di Stato di Torino. Si ricorreva a questo medicinale per curare anche la semplice influenza, il mal di testa o i dolori articolari.
A metà del 900 il chinino, o meglio la clorochina da esso derivata, fu riconosciuta per le sue proprietà antimalariche e fu impiegata ampiamente tra le truppe che combattevano nel Pacifico durante la seconda guerra mondiale.
Essendo però stata riscontrata una certa tossicità di questo composto, nel 1945 fu attuata una modifica, attraverso un processo di idrossilazione.
Da qui è nata l’idrossiclorochina, la cui tossicità – come è stato dimostrato – è notevolmente inferiore ed è in uso fino a oggi.
Il farmaco, negli anni, è stato sottoposto a diverse sperimentazioni, che lo hanno portato ad essere impiegato anche nel trattamento del lupus eritematoso sistemico. Dato il successo, si tentò di usarlo anche in un’altra artropatia, l’artrite reumatoide. E’ stato riscontrato, però, quanto sia importante somministrare il giusto dosaggio, perché se assunto in eccesso, la tossicità di questo farmaco può andare a colpire la retina e generare altri effetti secondari.
Motivo per cui, i ricercatori aggiustarono la dose e iniziarono a considerare la possibilità di una terapia di combinazione.
A oggi, i risultati migliori in letteratura riguardo l’idrossiclorochina si possono osservare nel trattamento del lupus. E’ stata anche dimostrata la sua efficacia nella riduzione di trombosi nei pazienti con anticorpi antifosfolipidi positivi. Non sono ancora stati condotti studi adeguati a confermarlo, ma le prove accumulate fino a oggi evidenziano una certa sicurezza anche nell’assunzione in fase di gravidanza. Uno studio condotto su 133 donne in gravidanza trattate con HCQ non ha riscontrato alcuna differenza tra i loro feti e quelli delle altre 70 donne del gruppo di controllo.
Enormi successi sono stati collezionati dall’assunzione del farmaco da parte di pazienti affetti da artrite reumatoide, con un dato aggiuntivo: chi viene trattato in questo modo, vede una ridotta probabilità di sviluppare il diabete rispetto a chi non lo ha mai preso. Inoltre, i dati suggeriscono che l’HCQ possa ridurre anche del 70% la probabilità di avere un evento cardiovascolare se assunta per più di 36 mesi.
Non va, come già detto, ignorata però la sua tossicità. Il danno più noto è quello alla retina che può portare alla cecità. Il rischio sembra aumentare dell’1% per ogni anno di assunzione. In generale, occorre quindi monitorare la situazione con dei regolari esami oculistici. Altri effetti possibili sono cardiomiopatie e miopatie. In alcuni casi, anche neuropatie; più raramente, può presentarsi una pigmentazione della cartilagine.
Se però le dosi vengono mantenute al di sotto delle dosi consigliate, il farmaco si è dimostrato piuttosto sicuro. Del resto, quattro secoli di storia non possono mentire, se si considera la lunga strada che ha fatto questo rimedio, partita dall’estrazione in forma di polvere dalla corteccia della Cinchona Officinalis, per arrivare a tempi più recenti, dove la mole di studi che ne comprovano l’efficacia è in crescita.
Non si tratta di un farmaco da banco, ma necessita di prescrizione e di monitoraggio medico per essere acquistato e utilizzato in totale sicurezza, prevenendo così qualunque possibile effetto collaterale grave.
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Articolo di Monica Vadi per generazionebio.com
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Foto di GOKALP ISCAN da Pixabay
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