C’è una differenza tra un processo vivente e uno non vivente?
Qual è quella caratteristica che ci rende vivi e differenti da macchine o da robot che eseguono dei comandi? In cosa consiste quella forza vitale che gli antichi filosofi identificavano nel cosiddetto “animus”?
La risposta è: la luce, il linguaggio di base con cui comunicano le nostre cellule e il DNA.
E’ stato osservato che una cellula viva contiene gli stessi componenti di una cellula morta. Molecole e strutture restano invariate. Allora deve esserci qualcosa che le dà vita!
Che cosa consente a un essere umano di accumulare mediamente dieci trilioni di cellule, che comunicano tra di loro in modo preciso in ogni secondo della nostra vita?
Bisogna anche sapere che ogni pochi secondi muoiono oltre dieci milioni di cellule e che, per prevenire il decadimento entropico, è necessario produrne altre per sostenere la nostra forza vitale. Un’impresa epica, che non ammette errori e che deve avvenire, letteralmente, alla velocità della luce.
Una tesi già sostenuta a suo tempo dallo scienziato russo Alexander Gurwitsch, rafforzata poi dai contemporanei Vladimir Vernadsky e da Fritz Albert Popp, il quale si espresse molto chiaramente in merito:
Siamo ancora sulla soglia della piena comprensione della complessa relazione tra luce e vita, ma ora possiamo affermare con enfasi che la funzione di tutto il nostro metabolismo dipende dalla luce.
Gurwitsch nel 1923 stava lavorando nel suo laboratorio sulle radici di cipolla, quando si accorse che le radici potevano stimolare quelle di una pianta adiacente, se le due piante si trovavano dentro vasi di vetro di quarzo. Effetto che non si manifestava se i vasi erano di silicio. Il quarzo filtra infatti alcune lunghezze d’onda dell’ultravioletto consentendo la comunicazione tra le entità biologiche. Proprietà che non appartiene al silicio.
Da qui partì Popp con ulteriori sperimentazioni. La sua osservazione si concentrò su diversi prodotti chimici, alcuni noti per causare il cancro, altri no.
I composti cancerogeni, assorbita la luce ultravioletta, ne cambiavano o mescolavano la frequenza. Questo è ciò che accade al DNA quando si consuma cibo spazzatura, oppure siamo ripetutamente in preda alle emozioni negative, o siamo esposti ad un elevato tasso di tossicità nell’ambiente. Questi elementi confondono i segnali luminosi emessi dalle cellule per comunicare.
Popp scoprì anche che questi composti cancerogeni avevano tutti una cosa comune: ciascuno di essi reagiva ad una frequenza specifica: 380 nm nella gamma dell’ultravioletto. Le sue indagini proseguirono fino a permettergli di scoprire che la luce era anche in grado di riparare le cellule.
Nello specifico, Popp scoprì che la UPE – Ultraweak Photon Emission (emissione di fotoni ultradebole) o BPE – Biophoton Emission (emissione di biofotoni) si riferisce al fenomeno dell’emissione costante e spontanea di luce da tutti i sistemi biologici, compresi gli esseri umani, a causa delle attività metaboliche, senza eccitazione o potenziamento.
Questo fenomeno avviene nella parte visibile dello spettro elettromagnetico, a intensità molto basse, nell’ordine di 10-16 10-18 W/cm2.
Riprogrammare il DNA significa consentire una comunicazione elettromagnetica coerente all’interno del sistema biologico e dell’Intelligenza dell’Universo che vive e respira. Le cellule con troppi farmaci e un eccesso di cibo elaborato, rischiano di soffocare ma, soprattutto, viene inibita la comunicazione della velocità della luce tra il corpo e l’universo frattale.
Riparare il DNA e le cellule significa permettere alla luce coerente di regolare i bioritmi, l’omeostasi e ogni singolo processo metabolico nel corpo. Le nostre cellule sanno bene cosa stanno facendo. Basta permettere loro di lavorare, evitando di interferire con questa comunicazione perfetta.
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Articolo di generazionebio.com
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Foto di Gerd Altmann da Pixabay
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