Sta arrivando la primavera.
La natura sta per riprendere maestosamente possesso di ogni spazio disponibile per farci assistere alla rinascita di ogni forma di vita.
Un arrivo che ha sempre il sapore di un ritorno.
Ma tutto torna per un motivo ben preciso: ha qualcosa che non ha ancora finito di insegnarci.
Tra i concetti fondamentali che la primavera – come la filosofia – potrebbe insegnarci, ce n’è uno che farebbe impazzire immediatamente il nostro cervello: la sospensione del giudizio.
Non importa l’inverno, quello che hai imparato finora, quello che sai, quello che ricordi, quello che pensi. Importa che tu riesca a guadagnare, adesso, un punto di vista nascente su ciò che sta catturando la tua attenzione.
Un punto di vista nascente.
Altrimenti non si riuscirebbe a capire cosa di così importante implicherebbe il suggerimento a vivere nel “qui e ora”, alla base di tutte le pratiche meditative tese a riportarci a noi stessi, al centro del nostro essere: tutte “collocazioni” astratte, se non ragioniamo su cosa esattamente cambia nel nostro punto di osservazione quando proviamo ad abbandonare la percezione abituale della realtà circostante e dei pensieri con cui siamo soliti suffragarla, spesso senza rendercene conto.
Cosa accade, quindi?
Accade che ci rendiamo conto progressivamente di quanto la concezione del mondo a partire dalla quale costruiamo il dialogo quotidiano con la prima persona che possa capitarci a tiro sia più complessa di quanto non sembri a prima vista.
Accade che, frammento dopo frammento, ogni parola, ogni definizione, ogni collegamento, perdano il significato forte che siamo abituati ad attribuire loro. Accade che d’improvviso si possa porre in questione tutto. Accade che noi stessi implodiamo in un dubbio inarginabile.
Avviene una sospensione, appunto, di questa modalità ordinaria con cui incontriamo tutti e tutto: il giudizio.
Perché siamo abituati a non abbandonare mai la dimensione del commento, della critica di ciò che accade. È talmente connaturata nella nostra visione, nel nostro ascolto, nelle nostre emozioni, da sembrarne l’abito più naturale.
Come ci trasforma il giudizio?
È proprio la sua sospensione – e non altro – l’immediata messa in pratica del nostro astenerci da esso – a farcelo capire. Il giudizio ci trasforma in perenni oppositori di ciò che nasce davanti ai nostri occhi: deve rispondere a determinati parametri – altrimenti non va bene, altrimenti era meglio ieri, altrimenti va meglio a quell’altro, altrimenti sono sbagliato io, altrimenti non farai mai niente di buono nella tua vita.
Il giudizio ci costringe a vivere nella continua attesa di essere sollecitati ad attaccare, a difenderci, ad arrabbiarci, in un continuo stato di allerta, di tensione.
Sì, ci dicono: la stanchezza, lo stress, un cumulo di frustrazioni e delusioni. Mille ragioni giuste – ma insufficienti.
Alla base c’è sempre il giudizio costante su ciò che dovrebbe accadere – e non accade – perché poi, in un secondo momento, possiamo rilassarci, dirci felici, stare bene.
Ma se io giudico qualcosa, impedisco a quel qualcosa di essermi visibile in aspetti che trascendono le mie aspettative: il giudizio restringe pericolosamente le nostre risorse mentali perché dice al mondo come deve essere, dice alle persone come devono comportarsi con noi, dice a noi stessi cosa dobbiamo e cosa non possiamo fare.
Il giudizio non guarda in faccia a nessuno e neanche a noi, è questo il punto.
È una dimensione che sembra appartenerci, mentre in realtà ci occupa abusivamente, con la nostra ambigua complicità. Ambigua, perché nonostante soffriamo il giudizio altrui, non sappiamo rinunciare al nostro.
Se vogliamo cambiare le cose, se vogliamo essere concretamente in sintonia con la primavera che sta arrivando, dobbiamo imparare da lei a rinascere dalle fondamenta, dobbiamo cominciare da cosa si trova immediatamente sotto il nostro naso: da cosa sta occupando la nostra casa al posto nostro, da cosa sta impedendo alle cose di “nascere” davanti ai nostri occhi, costringendole a percorsi tortuosi, sofferti, prevedibili – sofferti proprio perché prevedibili.
Prevedibili come le parole che ci risuonano nella testa e che quando non trovano più bersagli da colpire, lì fuori, accartocciano i nostri fallimenti, i nostri difetti, le nostre colpe, fino a farne un cumulo di rabbia, di insoddisfazione senza redenzione.
E tutto ci rimane dentro, ci stanca, ci nausea.
Per sfuggire cerchiamo ansiosamente altro, e altro ancora, di diverso, di diverso da noi.
Ma di diverso – di nuovo – non c’è nulla.
Lo capiamo quando non troviamo più niente con cui prendercela.
Spesso è solo arrivando a quel punto che ci fermiamo, che tutto si arresta. E in uno stato di sospensione del giudizio, in uno stato alterato della coscienza – ci ritroviamo per forza.
Sembra la fine.
Invece è l’inizio.
È sempre stato l’inizio.
Di qualunque gioia, di qualunque avventura, e della vita stessa.
Perché tutto nasca sotto una luce diversa, dobbiamo guadagnare un punto di vista nascente: un punto di vista che ci permetta di vedere le cose come se stessero arrivando per la prima volta.
Dobbiamo rinunciare alla nostra storia, alla concatenazione rigorosa dei motivi che abbiamo fornito a noi stessi per essere quello che finora siamo stati. Dobbiamo guardare negli occhi il nostro ospite abusivo, e lasciarlo andare – prima di poter accogliere la novità.
È la novità che ci rende attenti, pronti, disposti a sventagliare la gamma intera delle nostre risorse interiori.
È la novità che riscatta qualunque passato. Prezioso, necessario. Ma pur sempre meno importante di qualunque cosa stia nascendo – ora.
ISCRIVITI AL NOSTRO CANALE UFFICIALE SU TELEGRAM PER RICEVERE E LEGGERE RAPIDAMENTE TUTTI I NUOVI ARTICOLI
Articolo di Margherita Cardetta per generazionebio.com
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Foto di Freepik
Copyright – Se non diversamente specificato, tutti i contenuti di questo sito sono © GenerazioneBio.com/Tutti i diritti riservati – I dettagli per l’utilizzo di materiali di questo sito si possono trovare nelle Note Legali.